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REVIEW – IL GABBIANO

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di Alberto Raimondi

Il Gabbiano di Anton Pavlovic Čechov è la nuova produzione del Teatro Litta di Milano, propone il capolavoro di fine ‘800 in un’attualizzazione ormai inevitabile per far riassaporare questo testo al pubblico di oggi.

La trama per chi fosse a digiuno di questo capolavoro racconta di Konstantin Gavrilovič Treplev, figlio della celebre attrice Irina Nikolaevna Arkadina, il quale ambisce a diventare scrittore per avere la gloria e coronare il suo desiderio d’amore con la giovane aspirante attrice Nina Michajlovna Zarečnaja, sua vicina di casa. All’aperto e in prossimità di un lago è montato un palcoscenico sul quale Konstantin vuol rappresentare un suo lavoro teatrale interpretato proprio da Nina. La madre di Konstantin, Irina Arkadina, con i suoi commenti inopportuni e fuori luogo, interrompe la rappresentazione facendo infuriare il figlio. In seguito a questo insuccesso anche Nina viene frustrata nelle sue aspirazioni interpretative e finisce per andarsene a Mosca e diventare l’amante segreta di Boris Alekseevič Trigorin, letterato alla moda e a sua volta amante di Irina.

Fin da subito si evidenzia una certa comodità nel riportare in scena questo testo, il “luogo teatrale” , qualunque esso sia, si adegua perfettamente, più lo spazio è piccolo ed intimo e maggiore è la sua aderenza a certe situazioni sceniche trasportando il pubblico ad immaginarsi realmente un lago. In questo caso il lago sono proprio gli spettatori, un lago che osserva e immobile aspetta che le vicende scorrano.

Scritto nel 1895, uno dei temi centrali trattati nel testo è rappresentato dal divario generazionale , oggi e per sempre di forte attualità: l’incomprensione e l’inadeguatezza degli adulti nei confronti dei giovani, dei loro sogni e dei loro desideri. A distanza di 120 anni i giovani d’oggi si ritrovano ad affrontare le stesse difficoltà dei due protagonisti Kostja e Nina: l’inconsistenza di una generazione adulta che non nutre e non incoraggia i suoi figli, calpestati quasi involontariamente dall’ottusità e dall’inconsistenza dei vecchi.

In questa direzione si muove l’idea della messa in scena de Il Gabbiano per la regia di Antonio Syxty, che firma anche l’adattamento, con solo sette personaggi “rimasti in vita”: Caterina Bajetta, Letizia Bravi,Gaetano Callegaro, Valentina Capone, Guglielmo Menconi, Livio Remuzzi  e Antonio Rosti.

Si nota subito che anche all’interno del cast si è voluto giocare su un certo “scontro generazionale” facendo lavorare insieme sia debuttanti e giovani attori con altri più esperti e veterani. Ancora una volta siamo di fronte ad un Cechov lontano dalla tradizione, in questo caso il romanticismo lascia di più spazio ad una certa denuncia urlata.

Si cerca di portare fuori una certa brutalità umana, dove la sincerità è più un’arma crudele che una virtù. Come spesso accade nei drammi di Čechov il tema si rifrange in una moltitudine di situazioni e dinamiche che finiscono per accomunare tutti i personaggi implicati nella vicenda. I personaggi -qui sopravvissuti- in realtà contengono le note musicali proprie di tutti gli altri personaggi considerati spesso “di contorno”.

La scenografia di Guido Buganza è volutamente scarna e fredda, ma particolarmente interessanti troviamo l’uso delle video proiezioni che probabilmente avrebbero avuto bisogno di maggior sviluppo e dialogo con la scena, sarebbe stato interessante valorizzarle maggiormente e non lasciarle solo a scopo decorativo.

I costumi di Valentina Poggi puntano ad alcuni stereotipi per aiutare il pubblico a comprendere l’origine dei personaggi anche di fronte ad un cambio d’epoca.

L’arte come ragione di vita, ma anche come fuga dalla realtà familiare, sembra una storia che si ripete da sempre con diversi protagonisti che l’interpretano. In questo caso sfocia in un’incompiutezza e in una frustrazione pesanti da digerire perchè chiunque nella vita ha assaporato questo boccone ed è questa una delle forze di questo testo. Quante volte ci siamo sentiti sbagliati? Ne Il gabbiano tutti i personaggi si sentono “sbagliati”, ma se gli adulti sanno accusare il colpo ed andare avanti tra ferite e lividi della vita, sono i giovani a restare colpiti e tocca a loro cercare di evadere per schivare il macigno che sta per cadere loro addosso; come Nina, la protagonista femminile, a sua volta aspirante attrice «che tenta di evadere, attraverso il teatro, dal clima stagnante della vita di provincia, senza però riuscirvi».

Il gabbiano va quindi letto come un dramma generazionale? «In parte effettivamente lo è», ammette Syxty. «Non a caso i personaggi più anziani, cioè la madre di Konstantin, Arkadina, e il suo amante Trigorin, sono un’attrice e uno scrittore di successo, eppure inappagati, che di fatto ostacolano la realizzazione dei due giovani. Però sarebbe sbagliato ridurre a una vicenda generazionale un testo ben più complesso. Al centro del Gabbiano, semmai, c’è il problema del compimento dell’opera d’arte così come di quello della vita. Per Cechov l’uno sembra essere inscindibile dall’altro, ma è proprio questa inestricabilità a rendere entrambi problematici». In una «città ad alto tasso di giovani e aspiranti artisti», qual è Milano secondo Syxty, Il gabbiano non corre il rischio di sembrare inattuale e non rientra negli schemi attardati del «teatro borghese»!

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