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REVIEW – DIVINE PAROLE

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Uno spettacolo sconvolgente e toccante. Un’occasione rara per assistere al Teatro con la T maiuscola.

Divine Paroledi Alberto Raimondi

Divine Parole è il titolo dell’ultimo lavoro prodotto dal Piccolo Teatro di Milano con la regia di Damiano Michieletto, in originale Divinas palabras, testo di Ramón María del Valle Inclán: poeta, scrittore e drammaturgo considerato uno degli autori chiave della letteratura spagnola del Novecento.

Uno stile drammaturgico radicale che già determina in parte il lavoro in scena e che trova in Michieletto un ottimo traghettatore. Il grottesco e il surreale diventano l’ispirazione per una storia crudele e visionaria, dove la regia si adatta perfettamente e diventa interprete assoluto di una scrittura toccante e forte, sviluppandola in qualcosa di ancor più incisivo rispetto alla sua natura originaria.

Le parole più che “divine” sono delle vere sassate: impossibile restare indifferenti di fronte a questa visione a tratti sconvolgente. I perbenisti faranno finta di rimanere inorriditi, ma in realtà questo spettacolo è molto più di qualcosa di trasgressivo, anche se superficialmente può sembrarlo. In realtà si tratta di un lavoro molto studiato quanto efficace: una regia che cattura il pubblico e non lascia mai cadere l’attenzione, sia nei momenti lenti, sia in quelli di di forte impatto, perché è sempre e costantemente molto intenso; è crudele nella sua fotografia, ma è anche profondamente vero.

1427123667_DivineParole_RussoAlesi3©MasiarPasquali

Una visione livida di una umanità ai margini perfettamente mostrata anche nelle scenografie di Paolo Fantin come sempre fondamentale e determinante sul lavoro di regia di Michieletto. Fango e lamiere si adattano perfettamente all’idea registica esaltandola in ogni istante, dove il singolo passo in questo spazio diventa qualcosa di estremamente drammatico. L’arrancare in un luogo ostile e faticoso, i neon ed il candido delle pareti della chiesa… tutto contribuisce a dare forza.

I tagli diagonali sono solo un esempio di un disegno luci di Alessandro Carletti fuori dagli schemi e che si sposa senza pecca alla regia.

Carla Teti propone un’idea di costumi assolutamente adeguata, dove non esiste il “bello”, ma il “fragile”, perchè ogni costume vive una propria fragilità nel momento in cui entra in scena: basta poco per sporcarsi o per strapparsi. Una visione emaciata è il filo conduttore di tutto. Entrambi, Michieletto e Teti, propongono una visione “sporca” ed è palese la volontà di mostrare un teatro con un vero carattere, raccontando la storia di una comunità di “ultimi”, creature disperate, straccioni, ladri, prostitute, emarginati,  che vivono alle porte di una città, in un’epoca e in un tempo non definiti, lottando gli uni con gli altri per la propria sopravvivenza.

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Illuminante quello che dice Michieletto su questo testo: “È una sorta di parabola moderna, un racconto disperato e ancestrale. Una parabola nel senso di racconto epico, stagliato in una atmosfera nera e violenta. Racconta l’avarizia, la lussuria, l’ipocrisia. Racconta l’assenza di Dio e la lotta per recuperare in qualche modo il valore di una spiritualità. Le parole divine sono quelle che fermano il tempo. La necessità, il bisogno delle divinas palabras intese come elemento di spiritualità che sollevi l’essere umano da una quotidianità di squallore mi è sembrato l’elemento affascinante di questo testo barbaro ed enigmatico. Una invenzione teatrale ruvida e ostica, che mi ha portato a trovare certe affinità con il teatro di Pasolini. In un contesto in cui vige lo scardinamento dei valori della convivenza civile, in una dimensione ferina, in cui tutto è violenza, sopraffazione, abiezione dell’individuo, il bisogno di qualcosa che sia “oltre” mi è apparso immediatamente contemporaneo. Una vicenda intrisa di sangue fin dai primi minuti, e dominata dal fango della strada in cui gran parte dell’azione si svolge, fino alla lapidazione  finale, parallelo biblico in cui il Cristo ferma il tempo con le parole divine (qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat)”.

Queste parole bastano per capire molto dello spettacolo, ma andarlo a vedere è tutta un’altra cosa, perchè la “fornace teatrale” creata da Michieletto è molto più di queste parole. Fa impressione il lavoro sugli attori anche nei piccoli dettagli, così come l’impianto scenico diventa anch’esso un attore che recita con il resto del cast. A volte sembra che un oggetto venga messo in una determinata posizione per caso, salvo poi scoprire, due o tre scene dopo, che quell’oggetto è stato studiato esattamente per stare in quel posto, sia esso un asse di legno od un secchio d’acqua.

Stupefacente è la quantità di picchi teatrali che la regia scaglia in faccia al pubblico: un continuo susseguirsi di “possibili” finali; una carrozzina che cade o una scarnificazione umana, la morte di un’innocente o la violenza su una minore.

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Capita rarissimamente di trovarsi difronte ad un lavoro di questo livello. Lo spettatore viene trasportato continuamente nel punto più alto delle “montagne russe” e poi viene lasciato cadere, ma quando arriva giù la giostra riprende ancora… e poi ancora… fino a quando non si è completamente dentro alla storia e a quel punto si è già completamente infangati… senza accorgersene.

Di fronte ad uno spettacolo di questo genere il cast deve essere per forza più che adeguato: recitare qui non basta! I personaggi devono essere più che credibili perchè devono essere profondamente vivi (in ordine di apparizione): Pedro Gailo, interpretato da Fausto Russo Alesi, ottimo lavoro per precisione e intensità; Marco Foschi è il viscido e mefistofelico Séptimo Miau, Lucia  Marinsalta è Poca Pena/Benita, Sara Zoia è Juana la Reina, Bruna Rossi è Rosa la Tatula, Gabriele Falsetta è Miguelín el Padronés, Federica Gelosa e Francesca Puglisi sono Donne, Federica Di Martino è Mari-Gaila, Cinzia Spanò è Marica del Reino, Nicola Stravalaci è Il Cieco di Gondar/Milon, Petra Valentini è Simoniña ed infine gli allievi del Corso “Luchino Visconti” della Scuola di Teatro Luca Ronconi: Alfonso De Vreese, Benedetto Patruno, Marco Risiglione.

Difficile dire chi sia stato il più bravo perchè tutti lo sono stati, soprattutto quando la parola “bravo” non basta per commentare tutto il lavoro svolto in scena.

Crediamo che Divine parole sia uno spettacolo da vedere e non solo, che sia un ottimo biglietto da visita per il nostro paese nel mondo, segno che il teatro in Italia è vivo ed è giovane, è coraggioso e può ancora confrontarsi senza problemi con gli altri paesi… Soltanto le nostre istituzioni sembrano non accorgersene! Eccetto naturalmente il Piccolo Teatro!

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