Un Giulio Cesare irripetibile dal forte impatto emotivo
di Alberto Raimondi
La tanto discussa Socìetas Raffaello Sanzio di Romeo Castellucci mette in scena nel Salone d’Onore della Triennale di Milano “Giulio Cesare. Pezzi staccati“, un intervento drammatico su William Shakespeare nella ricorrenza del quattrocentesimo dalla morte il CRT contribuisce alle celebrazioni del Bardo con uno spettacolo che sconfina dall’arte al teatro, in una suggestiva ed inusuale cornice, perfetta per assaporare al meglio un simile lavoro. L’ampiezza della sala, con la sua altezza ed i marmi bianchi, hanno trasformato questa esperienza in un qualcosa di magico e surreale.
Romeo Castellucci firma un’ideazione metafisica più che teatrale, nel senso più stretto del termine: una messa in scena artistica e performativa, dove i tre “attori” Dalmazio Masini, Sergio Scarlatella, Gianni Plazzi sono quasi oggetti artistici o sculture animate più che “recitanti”.
Dal suo debutto nel 1997 con il titolo originale di Giulio Cesare. Tratto da Shakespeare e dagli storici latini il nome di Romeo Castellucci, insieme a Chiara Guidi e Claudia Castellucci, ha avuto modo di far discutere in diverse occasioni, sia con critiche negative sia con apprezzamenti apertamente positivi, Senza ombra di dubbio si è di fronte ad un lavoro che divide.
Oggi ci viene riproposto uno spettacolo quasi irripetibile nella sua totalità, secondo il regista e drammaturgo di Cesena che lo riporta in scena, optando per una versione più corta e scegliendo una serie di momenti emblematici – dei “pezzi staccati” per l’appunto- ottenendo così un montaggio frammentario che porta ad una inevitabile distruzione del testo. Si creano quindi una serie di quadri che non raccontano una storia ma dei singoli momenti di vita di un personaggio e dove il testo non è più fondamentale: le sensazioni suscitate regalano al pubblico riflessioni che vanno al di là del palcoscenico.
Sulla scena si fronteggiano e dominano l’intera vicenda i discorsi di “…vskij” e Marco Antonio. Da un lato “…vskij” -allusione a uno dei padri fondatori del teatro- inserisce una sonda ottica nella cavità nasale fino alla glottide. Il percorso dell’endoscopio è proiettato su uno schermo che visualizza il viaggio a ritroso della voce fino alla soglia delle corde vocali. Idea curiosa che purtroppo non si evolve, mostra per troppo tempo una trovata che poi resta fine a se stessa, non tutti i passaggi concettuali possono essere codificati dal pubblico e spesso le scene diventano fini a se stesse.
Dall’altro lato Marco Antonio, laringectomizzato, come l’attore che lo interpreta, e qui un’altra scelta forte che non lascia sereni. Dal piedistallo, con la sua tecnica fonatoria compromessa, scandisce il picco retorico del dramma, l’orazione funebre. Un dire sgolato dove la voce è solo un vibrare di commozione che fuoriesce grazie alla “ferita”. Attraverso la telecamera endoscopica, Castellucci mette in primo piano l’origine stessa della voce, nella gola. Il puro corpo del suono visualizzato nelle corde vocali ci mostra, nella sua debolezza, la fabbrica della parola, mentre attinge al poderoso armamento della retorica.
Al contempo, Marco Antonio compie uno sfoggio oratorio che diventa una lacerante arma politica, uno sfolgorio di persuasione di massa ma che al tempo stesso decade diventando “parole senza suono”, tornando quindi a quella finzione che è alla base del teatro. Bruto, Cassio, Cicerone, Antonio e perfino Cesare diventano strumenti di forze misteriose, in una narrazione che li stritola, per sublimarli in storia e consegnarli all’eternità.
Spettacolo di fortissimo impatto, pieno di idee molto efficaci, ma che ancora deve mostra come queste ricerche possano dare vita ad un vero e nuovo linguaggio teatrale. Solo in quel momento avremmo un lavoro completo.