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REVIEW – HAMLET (TEATRO STABILE SLOVENO)

Al Teatro Stabile Sloveno un Amleto in gonna e con le musiche dei Laibach

di Erica Culiat

Di nuovo Amleto. Eppure, ogni volta che questo titolo compare in locandina, si va a vedere la nuova versione. Teatrale o filmica che sia. Non ci spaventa la lunghezza del testo, quattromila versi, di solito sempre sfrondato, – a parte Kenneth Branagh che confezionò 242 minuti di film – e che forse, neppure nella Londra di Shakespeare, venne mai messo in scena per intero.

Amleto ci chiama perché lo amiamo, così come il popolo danese, ricorda Claudio, nonostante la scia di morti che si lascia dietro; perché “Amleto siamo noi”, diceva William Hazlitt. E poi perché l’Amleto di ciascun attore è sempre diverso dagli altri.

La curiosità è forte e prima di entrare a teatro o al cinema, ci si chiede sempre, ma come sarà questo nuovo «Essere, non essere?», come se l’intero testo si coagulasse soltanto in quel soliloquio.

E quindi, la scorsa settimana il Teatro Stabile Sloveno ha aperto la sua stagione proprio con Hamlet. Un’inaugurazione anticipata perché ad aprile chiuderà per lavori di ristrutturazione.

Matjaz Faric è stato chiamato per la terza volta a firmare la regia. Accanto a lui, la dramaturg Stasa Prah. Hanno lavorato sulla traduzione dello scrittore Ivan Cankar, del quale, tra l’altro ricorre il centenario della morte. I cinque atti sono stati ridotti all’osso, facendo un lavoro di sottrazione, e ciononostante la durata è corposa, depennando scene e gran parte dei personaggi tra cui anche Rosencrantz e Guildenstern.

In scena, Amleto (Klemen Janezic), lo spettro del re Amleto (Vladimir Jurc), Claudio (Jan Bucar), Gertrude (Tina Gunzek), Orazio (Tines Spik), Polonio (Primoz Forte), Laerte (Jernej Campelj), Ofelia (Sara Gorse), Fortebraccio (Miranda Trnjanin). Annullate anche le differenze d’età tra i personaggi. Tutti giovani, l’età va dai 26 ai 42 anni, ad esclusione dello spettro che è un po’ meno giovane.

Nella nudità della scena, firmata da Peter Furlan, gli attori sono già sul palcoscenico. Nel centro il feretro di re Amleto. Abiti corvini per tutti, con qualche risvolto rosso sangue, disegnati dal croato Alan Hranitelj (suoi, tanto per capirci, i costumi di Zarkana del Cirque du Soleil).

Amleto, occhiali scuri e gonna, come il suo amico Orazio. È la divisa degli studenti di Wittenberg? È un richiamo a Jean-Paul Gaultier o al più recente Thom Browne che l’anno scorso aveva fatto sfilare gli uomini in gonna, tanto per restare in tema gender fluid? O è un modo per sottolineare una certa fragilità emotiva di solito ascritta alle donne? Non ha importanza. Janezic, la gonna, la indossa con piglio mascolino. Lui è un Amleto fisico.

Nella rappresentazione teatrale dell’assassinio di Gonzago, Faric lo fa saltare, rotolare, cadere. Qui lo fa salire sul feretro appena la corte di Elsinore si allontana. Amleto si rannicchia vicino al padre morto. Lo abbraccia. Lo trascina giù. Ne viene travolto dal peso. Forse è l’unica persona che ama. Di sicuro non ama nessun altro. Non prova rimorso per aver ucciso Polonio o per aver spinto alla follia e poi al suicidio Ofelia.

Mentre guardavamo questo Amleto, pensavamo ai ragazzi di oggi che dicono e fanno tutto quello che passa loro in testa, nel bene e nel male, esibizionisti non per convinzione, ma probabilmente per nascondere un malessere (durante l’elogio funebre più simile a un comizio, Amleto si mette sotto il palco a gambe larghe, ostacolando l’uscita della madre e dello zio Claudio).

E poi ci veniva in mente Pirandello. L’utilizzo della pazzia o comunque di un atteggiamento strambo che corazza dal mondo esterno e la sensazione di avere davanti un ragazzo reale, Janezic, appunto, impastoiato nella trama di un dramma dove suo malgrado è costretto a recitare la parte di Amleto.

Il protagonista tiene la scena senza problemi, si sente che è a suo agio, parla in maniera asciutta, a volte stranita, tanto è il corpo a parlare. E anche la musica dark dei Laibach, il gruppo industriale sloveno.
Il suo «Essere, non essere» è recitato tra il pubblico, sguardo fisso, allucinato. Poi scende le scale della platea e lo ascolti vedendolo di schiena.

È come se il regista avesse voluto sbarazzarsi di questa parte che viene buttata un po’ via. Era già successo con Ralph Fiennes che la borbottava fuori scena. Sembra, ultimamente, che il “to be, or not to be” sia imbarazzante per i registi, quindi prima lo si fa, non importa come, meglio è.

Amleto è difficilmente catalogabile, il personaggio evolve man mano che i versi scivolano via, ma è anche vero che un po’ alla volta ci siamo allontanati da lui. Mentre all’inizio siamo stati un tutt’uno con il “principe melanconico”, anche noi eravamo abbracciati al corpo freddo di Amleto padre, anche noi abbiamo galleggiato nel dolore del figlio, in seguito non c’è stato più nessun transfert. Amleto diventa irritante nelle sue domande retoriche, nel suo egoismo, nelle sue esibizioni. L’attore è in scena e ci rendiamo perfettamente conto che stiamo assistendo a una rappresentazione teatrale. Non siamo più dentro lo spettacolo, ma fuori. L’inizio ci ha preso contropiede, dandoci l’impressione di un Amleto carne ossa e sangue, empaticamente noi, vicino a lui.

Faric ha concentrato l’attenzione soprattutto sui personaggi, portando per mano il pubblico senza distrazioni. C’è Claudio, lo zio usurpatore, che pur essendo un assassino – e così ha ottenuto il regno e Gertrude -, in realtà si dimostra assennato e amorevole nei confronti di Amleto, di cui chiede l’affetto e Bucar si muove bene tra i due estremi; ci sono il servilismo e l’ottusità di Polonio, ben tratteggiati da Forte; emerge molto bene l’opacità di Orazio, la rabbia di Laerte più verbale che emotiva. Gertrude è sempre vista come una prostituta che non ha onorato la memoria del marito defunto, anche se in realtà il testo non dice esplicitamente se sia colpevole o innocente. La Gunzek comunque l’ha ammantata di una rigidità formale e regale ben azzeccate, infine Ofelia, (una vibrante interpretazione da parte della Gorse) è la ragazzina che ha stampata sul volto l’incapacità di capire. Caleidoscopica nella scena della pazzia.

Diciamo che in questa versione colpisce più il lavoro fatto sui singoli personaggi e meno sulla storia. Un modo di approcciarsi che il pubblico ha comunque molto apprezzato.

Si replica ancora il 27, 28 settembre e 6 ottobre.

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