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PARTECIPO ERGO SUM – KILOWATT FESTIVAL 2019

Intervista a Luca Ricci che, insieme a Lucia Franchi, organizza anche quest’anno dal 19 al 27 luglio a Sansepolcro (AR) il Kilowatt Festival, giunto alla sua 17esima edizione: 62 aperture di sipario e 20 prime o anteprime nazionali

di Lucio Leone

Il 2019 è l’anno della diciassettesima edizione di Kilowatt, una diciassettesima edizione che prenderà il via venerdì 19 luglio e che per una settimana, fino al 27, diventerà l’occasione per assistere a 62 aperture di sipario e 20 anteprime o prime nazionali, divise tra teatro, danza, circo e musica, con cui si comporrà un affresco collettivo che svilupperà il tema scelto dagli organizzatori: “Partecipare è normale”. Un invito all’azione, forse con un inconscio riferimento all’equazione Gaberiana Partecipazione=Libertà, che invita a riflettere sull’importanza del coinvolgimento in un momento in cui le forme tradizionali di fruizione dello spettacolo sembrano essere sull’orlo di un cambiamento epocale. A parlarne a Central Palc è Luca Ricci, co-direttore con Lucia Franchi dell’Associazione CapoTrave/Kilowatt, che dal 2003 organizza a Sanseplcro (AR) questa kermesse.

Il nostro Paese ama molto i premi, forse un po’ meno i festival. Che significa perciò organizzare un festival oggi?

«Bella domanda. Allora, per me organizzare un festival significa immaginare un mondo, costruire dei luoghi di flusso del pensiero, degli spazi in cui si possano approfondire temi che nello scorrere della quotidianità sembrano marginali. Fermarsi per poi ripartire sembra essere diventato un lusso in una società che spinge tutto e tutti ad andare sempre più veloce, e invece ogni volta che osserviamo un panorama dall’alto (e i festival sono anche un po’ questo), aree e percorsi ci appaiono più chiari e definiti».

Essendo anche regista, esiste un possibile conflitto di interesse rispetto al ruolo di organizzatore di festival?

«Assolutamente sì, ed è un tema molto delicato al quale è necessario prestare molta attenzione. Questa estate debutta per esempio un mio lavoro [Piccola Patria, di Lucia Franchi e Luca Ricci, che ne cura anche la regia, ndr], e volutamente non l’ho inserito nel programma proprio per questo motivo. Occorrono delicatezza e rispetto dei ruoli, serve dedicare loro due emisferi del cervello diversi. Noi siamo sempre stati attenti nella nostra storia, a non fare di Kilowatt un trampolino per la nostra attività di Compagnia. È un sistema che non funziona mai, non paga, alla fine si finisce di fare scelte come moneta di scambio “io invito te perché tu inviti me”, e non per dare vita a una visione o per promuovere il valore artistico».

Sul sito di Kilowatt è presente l’aneddoto della “svolta” che ha portato alla nascita de “I Visionari”, il gruppo di spettatori non addetti ai lavori che sceglie opere inserite in una specifica sezione, e di come siete riusciti a coinvolgere il territorio. Lo racconta un po’ meglio?

«Ci tengo sempre a raccontarla questa storia perché poi alla fine è l’esempio di come, da un fallimento, possano derivare delle intuizioni, delle idee. Quando una cosa funziona non senti davvero il bisogno di modificarla, è quando invece una cosa non funziona che si mettono in moto processi che ti portano al cambiamento, e il cambiamento è condizione necessaria, anche se non sufficiente per crescere».

Un po’ “l’Elogio dell’errore”…

«Infatti! Quando nel 2003 cominciammo l’avventura di Kilowatt, si trattava di un progetto in parte confuso: sapevamo di voler costruire qualcosa per il nostro territorio, così che le persone fossero invogliate a venire a conoscerci, a vedere i nostri spettacoli, ma fu solo mentre lo stavamo effettivamente “costruendo” che ci rendemmo conto che dare vita a un festival era appassionante, che richiedeva una visione artistica, esaltante esattamente come allestire uno spettacolo».

Un percorso simile e parallelo…

«Esatto, parallelo e separato. Dopo tre anni però, ci rendemmo conto che non riuscivamo a coinvolgere davvero il territorio che sembrava rispondere molto poco. Così, ispirandomi al meccanismo delle case editoriali di selezione dei nuovi autori, mi sono detto: “perché non coinvolgere a un gruppo di persone, non addette ai lavori, che in autonomia possano scegliere alcuni spettacoli tra quelli che si propongono per la selezione?”. Le loro scelte saranno certo diverse dalle nostre, che invece ci occupiamo di arti performative in maniera professionale. Per concludere, le prime sere in cui questo gruppo si riuniva, vedere l’operaio, il dirigente INPS, lo studente universitario discutere di teatro contemporaneo con tanta foga e passione ha reso evidente che non avevamo dato vita solo a un espediente (come lo avevamo inteso inizialmente noi), ma a un vero progetto. Un modo per ripensare il rapporto platea/palcoscenico che è diventato un po’ il nostro “marchio di fabbrica”».

Per favore, mi dica che queste riunioni finivano per assomigliare a una riunione di condominio…

«Sì: succedeva proprio così! – (ride) – E m sorprendeva vedere come le persone potessero arrivare a “litigare” per il teatro contemporaneo, per la danza… Ma in definitiva è normale: se ti senti come se avessi scoperto una cosa di valore, poi te ne senti responsabile, non puoi non sentirla essere diventata parte del tuo universo quotidiano, e ti ritrovi a difenderla contro chi non la vede o capisce come l’hai vista o intesa tu».

Cambiando completamente discorso, quest’anno è accaduto un episodio spiacevole: una polemica social ha portato Romeo Castellucci a ritirare la propria partecipazione al festival. Le va di chiosare, a mente fredda, la vicenda?

«Voglio solo aggiungere che abbiamo provato a usare questa sconfitta per rilanciarla in un processo generativo. Il 20 luglio, al posto dell’incontro sull’opera di Castellucci, abbiamo organizzato questo incontro aperto intitolato “Il linguaggio che siamo diventati”, provando ad analizzare i tre temi che sono emersi da quella discussione: le forme della comunicazione attraverso i social media, il lavoro precario nel mondo dello spettacolo, e il linguaggio di genere».

Kilowatt è capofila di “Be SpectACTive!”, un importante progetto culturale europeo che opera nelle arti performative attraverso attività finalizzate al coinvolgimento di cittadini e spettatori nei processi creativi e organizzativi. Quanto è difficile far sentire la propria voce in un contesto europeo e relativi panorami artistici, così diversi dal nostro?

«Ci sono certo molte differenze. Per esempio è indubbio che, paragonandoci ai nostri cugini francesi, che per vicinanza e identità sono certamente per noi un punto di riferimento, il nostro Fondo unico per lo spettacolo è meno di un terzo rispetto al loro e dei 19 partner europei che fanno parte di questo progetto, noi siamo senz’altro tra i più piccoli se ci riferiamo ai soli bilanci annuali. Però allo stesso tempo non sono d’accordo con chi sostiene che il nostro Paese arranca o è in difficoltà per mancanza di investimenti in cultura. Un problema ovviamente c’è, ma allo stesso tempo, in questo progetto di scambio e collaborazione, ci siamo anche resi conto che noi italiani, sul tema della partecipazione attiva, siamo senza dubbio all’avanguardia, con tantissimi progetti che vengono oggi presi ad esempio in tutta Europa».

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