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RECENSIONE – L’ALFABETO DELLE EMOZIONI

Massini porta sul palcoscenico il misterioso e potente universo delle emozioni

C come coraggio. D come dolore. N come nostalgia. L come logica. F come felicità o frustrazione. S come solitudine e stupore. I come invidia.
Sono alcune lettere del suo Alfabeto delle emozioni che Stefano Massini ha pescato da una scatola quando l’abbiamo visto a Trieste, ospite del Teatro La Contrada.

Se Nicoletta Costa aveva illustrato le emozioni in un libriccino per bambini con lo stesso titolo, Massini ha dipinto con le sue di parole, riempiendo lo spazio di novanta minuti. Un racconto mai banale, trapuntato di personaggi, storici, contemporanei, fatti più o meno conosciuti per esemplificare le emozioni sorteggiate quella sera. Emozioni, come racconta Massini con piglio attoriale e pieno possesso del palcoscenico, unico linguaggio che appartiene all’essere umano. Non sono molte, sono sei, ma declinate in molteplici modi. Appena le esprimi, diventi vulnerabile e quindi ne abbiamo anche paura.

D’altra parte nell’antichità le emozioni erano considerate in maniera negativa. Platone ne parlava come qualcosa che ci metteva allo stesso livello degli animali. Ancora oggi non “sta bene” piangere ai funerali e inforchiamo degli occhiali scuri per nascondere la nostra tristezza o disperazione. Ma il raccontare di Massini attraverso i suoi exempla forse è un modo di ricordarci che siamo fatti di emozioni, in un presente dove molte persone non riescono a verbalizzare i propri stati d’animo, dove gli anoressici emotivi crescono di numero.

Come bambini l’abbiamo ascoltato a bocca aperta, lui che è stato definito “il più popolare raccontastorie del momento”, mentre smatassava il coraggio di Matthias Sindelar, il Mozart del pallone che, nella partita della riunificazione (3 aprile 1938), tra la nazionale austriaca e quella tedesca, avvenuta un mese dopo l’Anschluss, non solo farà vincere la sua squadra che per accordi presi in precedenza avrebbe dovuto perdere, ma sfilando davanti a Hitler si rifiuterà di fare il saluto nazista.

Ha poi dribblato sul dolore di Nina Giustiniani, giovane colta, mazziniana convinta e filo repubblicana, sposata a un uomo dalle idee reazionarie, che si innamora di quello che sarà il primo presidente del Consiglio d’Italia, Camillo Benso, futuro conte di Cavour. Sprezzante delle convinzioni si presenterà a teatro, quando il re morirà, vestita non in lutto, come imponeva il protocollo allora, ma in maniera sgargiante. Considerata una pazza dalla famiglia, vivrà da emarginata e alla fine si suiciderà, «tolgo il disturbo in questo mondo di anestetizzati».

E poi c’è la nostalgia di Goethe per casa sua quando è impegnato nella campagna di Francia, ma mentre sta ritornando, quella nostalgia non gli appare più come un abbraccio, ma come una gabbia e fa dietrofront. Quindi quello che a volta pensiamo sia nostalgia è qualcosa d’altro, ma non sappiamo cosa.
La logica ci fa paura, ma è anche un rifugio; la felicità è un frammento, mentre la frustrazione è il non vivere. La solitudine si scinde nello stare soli e nell’essere isolati come Sam Bartram quando nel 1937 durante una partita di calcio restò in porta, mentre in realtà la partita era stata sospesa per nebbia, ma nessuno lo aveva avvertito.

La S di Massini indica anche lo stupore, quando tocchi qualcosa e scopri improvvisamente un pezzo di te fino a quel momento sconosciuto, come Luis Armstrong che bambino scoprì il suo grande amore per la tromba, non appena gli fu messa in mano perché stesse un po’ calmo nell’orfanotrofio dov’era ospitato.

Massini ci fa ridere elencando, e l’elenco è bello lungo, anche le nuove paure come la nomofobia, la paura cioè di essere disconnessi quando non c’è campo o la batteria dello smartphone si sta scaricando.
E c’è ancora l’invidia che porta, si tratta di un fatto di cronaca del 2002, Daniela Cecchin, una donna dall’aspetto mite e anonimo, a uccidere con 47 coltellate una coetanea, moglie di un conoscente perché era invidiosa di quello che aveva.
Se accettiamo l’etimologia della parola emozione dal latino emovère, cioè portare fuori, la Cecchin ha esternato la sua emozione biliosa perdendo se stessa, ma si perde se stessi anche a furia di inibire le proprio emozioni, perché alla fine, come ricorda Massini siamo tutti degli equilibristi sul filo della nostra emotività.

Questa produzione del 2020, firmata Savà, è ancora in giro. A maggio in scena a Genova, Bologna e Parma. Se potete non perdete questa occasione.

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