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DOPPIA RECENSIONE – “MI ABBATTO E SONO FELICE” + “L’ESTINZIONE DELLA RAZZA UMANA”

Due spettacoli da non perdere firmati da Daniele Ronco e Emanuele Aldovrandi.

Finalmente un teatro che ti tira per i capelli, stuzzica la tua attenzione. Un teatro che ti fa entrare in un altro mondo, ma poi ti accorgi che è il tuo mondo raccontato da altri. Nessuna palpebra che si abbassa, come a volte purtroppo accade nel chiaroscuro caravaggésco di una platea, perché di questi cartelloni infarciti per l’ottanta per cento di classici, non se ne può più. Nessuno dice di abolire i classici, ma ritorniamo a insistere che un cartellone, per la sua maggioranza dovrebbe essere contemporaneo. Un teatro che racconti la nostra realtà.

Comunque nella seconda metà di settembre abbiamo applaudito tanto Mi abbatto e sono felice di e con Daniele Ronco e L’estinzione della razza umana, scritto e diretto da Emanuele Aldovrandi. Il primo era inserito nella rassegna Innesti 2022 che rientra nell’offerta culturale proposta da ArtistiAssociati a Gradisca d’Isonzo, il secondo era il primo evento speciale della Contrada di Trieste.

Daniele Ronco della compagnia teatrale “Mulino ad Arte” non lo conoscevamo e ci ha folgorati con il suo monologo di 60 minuti. La regia è di Marco Cavicchioli. 60 minuti in cui Daniele pedala e mentre parla, macina una trentina di chilometri sui rulli, producendo 150 Watt. Pedalando, infatti, lui si illumina, fornisce l’energia necessaria a tre faretti montati su una struttura metallica che gestisce grazie a un interruttore sul manubrio. Impatto ambientale “0”. Daniele si rifà al testo Decrescita felice di Maurizio Pallante e a un documentario dove un ingegnere belga raccontava di come aveva ridotto il suo impatto ambientale. Nel suo ufficio usava la cyclette per produrre l’energia necessaria al funzionamento del computer.

Non pensate che biciclettando Daniele ci dice, fate questo, non fate quest’altro, non esibisce il decalogo green del terzo millennio spuntando in maniera pedissequa temi come l’inquinamento ambientale, l’eco-sostenibilità, il consumismo, ma attraverso la lezione di vita di suo nonno Michele, accento piemontese, e un carosello di personaggi a cui lui dà vita, cambiando il tono di voce, girando i cappellino, ricevendo lo sparo del faretto da destra o da sinistra, sfuma in aneddoti questi temi. Nonno Michele, che non c’è più, spendeva poco nel suo mondo dove si vendemmiava, gli elettrodomestici dovevano durare il più a lungo possibile e bisognava stare lontani dai centri commerciali.

E tu resti lì a bocca aperta ad ascoltarlo, senza perdere neanche una sillaba.

Daniele ci fa anche chiudere gli occhi. Stiamo a fari spenti mentre per qualche minuto lui ci regala una performance alle percussioni. Tutto quello che si vede in scena è stato recuperato nella cantina del nonno, dalla bicicletta alla vecchia 1100 dinamo che fa funzionare tutto. Anche gli abiti che indossa, tranne il cappellino.

Ascolti con attenzione e sorridi delle nostre contraddizioni. Capitalismo sì, ma le code in macchina, no. Passeggiate nella natura sì, ma poi distruggiamo gli alberi e via di questo passo. Insomma, una splendida lezione di economia pulita che è quella che il teatro genera.

Emanuele Aldovrandi. Ha vinto in questi ultimi dieci anni vari premi per i testi che ha scritto – ha anche tradotto Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Simon Stephens che L’Elfo ha messo in scena -. È dello scorso anno L’estinzione della razza umana che, tra l’altro, è stato selezionato da Eurodram 2022, il comitato che segnala le migliori novità drammaturgiche adatte alla circuitazione internazionale. Un’unica data, purtroppo, a Trieste.

Si parla di una strana pandemia che trasforma gli esseri umani in tacchini. Il lavoro di Aldovrandi è iniziato nel gennaio del 2020, era appena diventato padre e subito dopo c’è stato il lockdown. Lui stesso nelle note di regia scrive che non voleva fare una cronaca del Covid. Tuttavia ciò che abbiamo vissuto, è sgranato lì, sul palcoscenico, attraverso i ping pong verbali credibili eppure a volte assurdi dei cinque protagonisti, i quali si muovono e compaiono, avvolti nelle sfumature azzurro polvere degli abiti (questi firmati da Costanza Maramotti) che sembrano tute da carcerati. Stanno affacciati alle finestre o nel cortile di questo palazzo più simile a una voliera/prigione (di Francesco Fassone).

Non a caso, ogni volta che si apre il portone del cortile, scatta un suono metallico che ricorda appunto quello delle prigioni e si accende una luce rossa (la voce fuori campo è quella di Elio De Capitani). Nessun personaggio è negativo, anzi, di volta in volta ti identifichi con l’uno o con l’altro.
Perché scusate, a nessuno è venuta voglia di sgranchisti le gambe facendo una corsetta anche se era vietato? Ma è anche vero che se ci sono delle regole bisogna rispettarle, per il bene di tutti. È un dovere civile. Ma che succede se vado a correre da solo? Non tocco niente. Non parlo con nessuno.
E così il pubblico si trova invischiato in quelle chiacchiere da social che hanno inquinato, anzi a volte hanno fatto deflagrare amicizie.

Aldovrandi, con una scrittura che non fa sconti a nessuno eppure delicata nella sua introspezione psicologica mette in piazza il nostro essere umani, le nostre fragilità in un mondo che chi lo sa, arriverà al 2050? Viviseziona le nostre certezze che ormai stanno franando, le nostre paure, attraverso due coppie di attori irresistibili (Giusto Cucchiarini, quello che vuole andare a correre e Silvia Valsesia, la sua compagna che non vuole figli e auspica l’estinzione della razza umana; Eleonora Giovanardi e Luca Mammoli, neo-genitori e lui è quello che vuole vengano rispettate le regole del lockdown, impedendo a Cucchiarini di andare a correre), cui va aggiunto un quinto personaggio, in realtà Riccardo Vicardi ne interpreta due, un corriere di pacchi, che nasconde di aver contratto il virus per paura di perdere il lavoro e un medico che ogni giorno è a stretto contatto tra mutazioni contagi e decessi.

Si ride di quello che siamo stati. Di quello che siamo. E mai titolo sembra più profetico, soprattutto oggi, dove la pandemia non è più prioritaria perché il pericolo più grosso potrebbe essere una guerra nucleare. Torneremo a cacciare con archi e frecce come profetizzava Einstein?

Insomma due spettacoli che a lasciarveli scappare, ci perderete sicuramente voi.

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