Uno spettacolo da non perdere al Piccolo Teatro di Milano, in scena fino al 22 dicembre
di Barbara Palumbo, foto ©Masiar Pasquali
Tratto dall’omonimo libro del giudice Ennio Fassone, la nuova produzione del teatro milanese si è avvalsa della collaborazione del giovane scrittore Paolo Giordano (il suo romanzo di debutto La solitudine dei numeri primi, lo ha portato subito alla ribalta), per una trasposizione teatrale dell’epistolario tra il già citato magistrato e il detenuto Salvatore Mocci, condannato all’ergastolo proprio da Fassone.
Giordano riesce a trasmettere l’umanità dei due personaggi; il dramma di entrambe e la necessità di non interrompere questo rapporto iniziato, apparentemente su due piani molto diversi, ma che in realtà avevano un obiettivo comune quello di vincere la solitudine che li accumunava: per il giudice quella dell’isolamento mentale dato dal ruolo, per Mocci quello legato alla sua condizione di carcerato. I due riescono a trovare un modus comunicandi che si erge sopra le diverse capacità linguistiche dei due e arriva al dramma dell’Essere umano: quello di essere imprigionato nella propria condizione fisica o mentale.
Giordano rende il testo godibile e brillante ma, non per questo, meno privo di spunti di riflessione. Cade solo sul finale con una chiusura forse un po’ scontata. Ottima l’interpretazione di Paolo Pierobon, un’ulteriore conferma delle sue doti. Il suo Salvatore è in continuo mutamento sia verbalmente sia fisicamente. L’ottimo Sergio Leone ci è sembrato a volte un po’ troppo impostato, ma, si sa, fa parte del ruolo.
Le scene semplici, lineari a tratti alienanti sono risultate funzionali all’azione dei due attori. La regia di Mauro Avogadro non ha invaso il testo dando la possibilità di apprezzarlo.