
La Bella Addormentata del Balletto di Odessa contagia la sonnolenza

di Erica Culiat
A dire il vero le nostre simpatie vanno ai coreografi contemporanei come Angelin Preljocaj, Justin Peck, William Forsythe, Christopher Wheeldon, ma fa piacere vedere anche i balletti narrativi.
Parliamo de La Bella Addormentata nella coreografia storica di Marius Petipa in cartellone al Teatro Verdi di Trieste per cinque repliche dicembrine con il Balletto dell’Odessa Academic Opera and Ballet Theatre.
Il colpo d’occhio è assicurato. Le scene di Evgeniy Gurenko sono sfarzose, i costumi di Sergey Vasilyev sono principeschi, cromaticamente brillanti e, comunque, vedere sessanta ballerini in palcoscenico fa il suo effetto.
L’allestimento è quello con gli originali tre atti più il prologo. Detto ciò, da una compagnia ucraina – ma che dovrebbe rientrare in quella che è la grande tradizione russa tersicorea – ci aspettavamo molto di più.
Questo balletto di Petipa è il balletto dove la tecnica accademica è valorizzata al massimo, è proprio lo sfoggio della tecnica.
Vai a vedere la Bella perché sai che assisterai a un campionario di evoluzioni e passi, equilibri che sfidano la gravità, che sembrano tirati fuori da un manuale di danse d’ecole. Ma a parte la parata di bravure dei vari personaggi di favola nel finale, Cappuccetto rosso e il lupo (graziosi Ksenia Zakharchenko e Denys Cherniak), il Gatto con gli stivali, gli uccelli blu e il celebre adagio della rosa del primo atto, dove sono finite tutte le variazioni di Aurora e delle fate? Non erano in grado di sostenerle?
Perché a dirla tutta, vuoi forse per la giovane età, soprattutto delle ragazze, il corpo di ballo tecnicamente era insicuro. I movimenti non sempre erano sincroni.
Nel Valzer delle ghirlande del primo atto, l’equilibrio dei ballerini era precario e le ghirlande ondeggiavano pericolosamente. Gli arabesque e i développé dei danzatori nel prologo non li abbiamo visti e il pas des deux tra Aurora e il principe è passato inosservato, non ci ha colpito per nessuna difficoltà tecnica.
Come giustificare quindi tre ore di questo che è considerato un balletto impossibile proprio per la sua lunghezza?
Alla prima c’è stata una lenta emorragia di pubblico che durante gli intervalli, due, se ne andava. D’altra parte, come non dare loro torto, anche se, senza polemizzare, il pubblico triestino non ha una gran cultura ballettistica,

Dopo esserci riempiti gli occhi di regge, giardini, boschi illuminati dalle luci di Vyacheslav Usherenko, e tutù scintillanti, dopo aver apprezzato anche l’intensità gestuale per le parti pantomimiche, questa versione annacquata ha annoiato.
Di conseguenza anche Olena Dobryanska (Aurora), pincipal del Balletto di Odessa, graziosa, sorridente, dopo un inizio smagliante, ha eseguito questo testo coreografico semplificato senza regalare nessuno stupore e anche in quel poco di tecnico che c’era, non ha dimostrato quella fermezza di linee che viene richiesta per questo ruolo.
Stanislav Skrynnik, il principe Désiré, ha dimostrato naturalezza nei salti e nei giri e fra tutte le fate, si è distinta Alina Sharay, la Fata dei Lillà, con port de bras eleganti e dal contegno aristocratico.
Nel ruolo en travesti di Carabosse, Bogdan Chabanyuk, ha iniettato tensione drammatica in questo regno immaginario simile alla Francia di Luigi XIV.
Abbiamo invece apprezzato la partitura di Cajkovskij che l’orchestra del Verdi ha eseguito in maniera brillante diretta dal maestro Igor Chernetski.
Non c’è da aggiungere molto altro. Ci rendiamo conto delle difficoltà economiche in cui le Fondazioni liriche si dibattono e sappiamo che le compagnie degli stati post-sovietici non hanno i cachet di quelle europee o americane e quindi “convengono”.
Tuttavia siamo dell’idea, visto che nel cartellone c’è un solo balletto, di scegliere guardando non soltanto alla tasca, ma anche alla qualità. Tutto sommato in passato sono transitate al Verdi le compagnie di Bejart, di Petit, il New York City Ballet, Carolyn Carlson… ma questa, purtroppo, è tutta un’altra storia!