Metlicovitz, il pioniere della pubblicità: una mostra da non perdere
di Erica Culiat
Un risarcimento a Leopoldo Metlicovitz (1868-1944). Così è stata stigmatizzata la prima monografica al cartellonista triestino allestita negli spazi del Civico Museo Revoltella e alla Sala Selva di Palazzo Gopcevich fino al 17 marzo 2019.
Decisione insolita vista la lontananza dei due musei, anche se parlare di lontananza a Trieste, che è una città molto piccola, è relativo. Tuttavia, non è proprio dietro l’angolo. La sede di via Rossini ospita il museo teatrale e quindi lì sono state esposte 25 affiche che l’artista triestino aveva disegnato per pubblicizzare opere e operette, mentre tutto il resto si trova al Revoltella.
Anche qui però il materiale è stato frammentato tra una saletta del pianterreno, la Sala Scarpa che si trova nel soppalco sopra l’Auditorium, un altro spazio che si raggiunge scendendo dalla sala Scarpa e un’ultima parte nel corridoio antistante la terrazza del quinto piano.
Capiamo che gli spazi di questo museo sono un po’ particolari.
Capiamo anche che disallestire la mostra Il Primo Novecento, tra l’altro molto bella, dove si possono ammirare gli artisti triestini e giuliani, che occupa gli spazi principali del quinto piano per far posto a “Metlicovitz. L’arte del desiderio. Manifesti di un pioniere della pubblicità”, avrebbe inciso su costi e tempistiche, crediamo però che il cosiddetto risarcimento, nei 150 anni dalla nascita di questo artista, è un risarcimento smorzato. Oppresso tra l’altro da un allestimento così sobrio da risultare triste.
Fortuna che ci sono le opere di Metlicovitz, un autore schivo e modesto che neanche firmava le sue cose o al limite ci metteva le iniziali. Tant’è che in una ristampa del volume di Max Gallo I manifesti nella storia e nel costume (Mondadori, 2000), il manifesto dell’Inaugurazione del Sempione, visibile in mostra nel capoluogo giuliano, risulta come “anonimo”.
73 manifesti, tre dipinti, e una selezione di grafica minore come cartoline, copertine di riviste, spartiti musicali, provenienti per la gran parte dal Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso, ma anche dalle collezioni civiche del Revoltella e dallo Schmidl (il museo teatrale) e da raccolte private.
Metlicovitz è uno dei protagonisti che, alla fine dell’Ottocento, fa sfavillare il manifesto artistico come un fuoco d’artificio. L’accelerante di questa esplosione è l’editore Giulio Ricordi che assume come direttore artistico delle Officine Grafiche Ricordi, Adolf Hohenstein e attorno a queste due figure si agglutineranno i migliori grafici italiani: Leopoldo, appunto, Mataloni, Laskoff, Dudovich, altro triestino, Villa.
Ma non bisogna neanche trascurare un committente molto importante, vale a dire i grandi magazzini Mele di Napoli che richiedono dei manifesti commerciali di qualità che conquistano il mercato. E se il loro preferito sarà Marcello Dudovich, anche Metlicovitz disegnerà molti manifesti da cui ci guardano o si guardano allo specchio donne ancora avvolte in vaporosi abiti ottocenteschi. In mostra potremo ammirare ben nove di questi.
Manifesti piccoli. Manifesti giganti. Dove tutto viene pubblicizzato, i libri, gli sport, i viaggi, le riviste e i giornali, le ferrovie, le macchine… Oggi ci sembra del tutto normale, ma all’epoca è stata una rivoluzione. I tempi stavano cambiando: le malattie arretravano, la vita si allungava, la società diventava mobile, c’erano i tranvai elettrici, le biciclette, i taxi, la metropolitana. Si incominciava, insomma, a credere che molte cose erano possibili. Ecco, allora, che i disegnatori di manifesti e gli uomini della pubblicità colgono questo cambiamento sociologico e lo esprimono, lo utilizzano, l’accentuano (Max Gallo, I manifesti nella storia e nel costume).
Pensiamo soltanto alla pubblicità per le calzature, – ce n’è una molto bella del Calzaturificio di Varese – un tempo nascoste dagli abiti lunghi, in seguito reclamizzate. Da oggetti utili, assumono la funzione dell’eleganza e oggetto di desiderio da parte della donna.
Soffermarsi a guardare questi manifesti non significa solo apprezzare le doti artistiche di Metlicovitz, ma significa anche scoprire un’epoca, sostanzialmente borghese, che si sta costruendo, dove la rivoluzione industriale e i suoi effetti nella vita quotidiana hanno riempito l’uomo di fiducia. Nuova attenzione all’infanzia, alla donna, alla moda femminile e maschile, al divertimento, alla cultura, alle innovazioni tecnologiche.
Come il triestino Leopoldo finisce a Milano? Sembra che Giulio Ricordi sia capitato a Udine in una tipografia dove l’artista, allora quattordicenne, faceva l’aiuto litografo. Una versione tramandata, ma non suffragata da testimonianze d’archivio. Ricordi gli consiglia di completare la sua preparazione a Milano e nel 1892, a ventitré anni, Leopoldo entrava alla Ricordi come direttore tecnico. All’inizio trasponeva su pietra litografica i disegni di Hohenstein, ma il suo talento pittorico non passa inosservato e in poco tempo diventa il punto di riferimento nella realizzazione dei manifesti pubblicitari o avvisi figurati come si chiamavano allora.
Non solo manifesti dedicati a prodotti commerciali e industriali, ma anche legati a eventi come l’Esposizione internazionale di Milano del 1906 e alla musica. Sarà proprio Giulio, grande melomane, ad avvicinarlo a questo mondo, facendogli conoscere Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini e Riccardo Zandonai. Ed ecco le commissioni dei cartelloni di opere liriche andate in scena dal 1898 in poi. Indimenticabile è quello per Madama Butterfly, anche se è considerato un vero e proprio capolavoro quello per l’operetta Sogno di un valzer di Oscar Straus che ha il suo modello in una fotografia che ritrae l’artista con la moglie Elvira in una posa analoga a quella del cartellone.
Il “tutto Metlicovitz” in pratica è racchiuso in otto sezioni. Si parte da Gli esordi: un Liberty piccolo piccolo, c’è poi la sezione già citata Modernità e Grandi Magazzini dedicata ai Mele, mentre tre manifesti raccontano L’invenzione della luce, quella che a fine ‘800 viene chiamata “fata elettricità”.
Non manca neanche quel memorabile manifesto dalla composizione fiammeggiante per Cabiria (1914), il film-kolossal di Giovanni Pastrone e un piccolo angolo dedicato a L’eterna nostalgia della pittura dove sono esposti tre dipinti. Pittura che era la sua segreta vocazione e alla quale si dedicherà in tarda età quando si ritirerà a Ponte Lambro.
Al quinto piano abbiamo una sezione intitolata Il Progresso: nudi alla meta, la sezione Pronti, via! Sport e turismo, quella che ospita Eros, il grande latitante, nove manifesti con una produzione più sensuale e ammiccante, anche se contenuta, tra cui uno dei rari nudi di donna come Sauzé Frères, immagine guida della mostra. Infine Sicurezza: casa, lavoro, famiglia, la produzione più tarda quella dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Trenta.
E sempre per omaggiare Metlicovitz, ritorna anche Museo in Danza grazie alla collaborazione fra Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, il Comune di Trieste e la compagnia Arearea. Infatti il 21 dicembre la compagnia udinese ha proposto un itinerario coreutico negli spazi dedicati all’artista.
Il consiglio comunque è: non perdete la mostra. Troverete delle immagini che ormai sono entrate nel nostro immaginario ma che non abbiamo mai collegato a nessun nome. Ebbene l’autore c’è ed è Leopoldo Metlicovitz.
La mostra è curata dallo storico dell’arte e scrittore Roberto Curti che già nel 2002/3 ne aveva firmata un’altra, quella su Marcello Dudovich, davvero sontuosa.
L’attuale è realizzata e promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Trieste con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Polo Museale del Veneto e il Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso e diretta da Laura Carlini Fanfogna al vertice del Servizio Musei e Biblioteche e da Marta Mazza, direttrice del Museo Salce, dove Metlicovitz si trasferirà il prossimo aprile.