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RECENSIONE – NOMEN OMEN, IO CASSANDRA

Nel complesso monumentale di S. Maria del Gesù di Modica un caleidoscopio scenico magnifico e originale firmato da Gisella Calì

di Vincenzo Vitale

L’aspetto più significativo dell’opera di Gisella Calì (che ne è autrice e regista ) – messa in scena a Modica presso il celebre complesso monumentale S. Maria del Gesù – non sta in ciò che ella ha saputo fare, conformando sul palcoscenico il proprio pensiero, ma sta invece nell’averlo, questo pensiero, pensato.

Qui risiede infatti il suo merito più autentico: aver immaginato un magnifico caleidoscopio scenico quale perfetta macchina teatrale capace di veicolare – verso gli spettatori ammirati – il filo rosso di una tragedia (quella di Cassandra) che si articola in molteplici quadri simmetrici e dei quali ciascuno richiama e riflette immediatamente l’altro: come appunto avviene nel caleidoscopio.

Ho scritto macchina teatrale, ma meglio dovrebbe dirsi estetica attoriale, dal momento che la realizzazione non è affidata ad improbabili impalcature sceniche o a sofisticati ritrovati registici, ma alla capacità ed alla sensibilità degli attori, i quali, discreti volani del caleidoscopio, si avvicendano, sotto la sapiente mano della Calì, nei vari ambienti ove si svolge l’azione con raffinata padronanza del gesto e della parola.

Si intrecciano così, da un lato, la vicenda tragica di Cassandra (resa mirabilmente da una misuratissima Debora Bernardi), figlia di Priamo, schiava di Agamennone, profetessa di sventura per la casa di questi, ma, come è noto, fatalmente destinata a non essere creduta; e, dall’altro, quella di Cassandra Politi (ben disegnata da Cristiana Voi), figlia di Biagio (uno strepitoso Aldo Toscano), nobile squattrinato, costretta dal padre a sposare, per ragioni economiche, il non più giovane barone Cesare Iudica (superba, per presenza scenica e per tonalità vocale, la resa di Emanuele Puglia) e che invece finisce con l’innamorarsi di Gabriele (Roberto Manetto), figlio di primo letto del barone: da qui lo scandalo, il suo allontanamento, la sua fine.

Due donne, dunque, esistenzialmente definite dal medesimo nome, Cassandra, che, di per se, non soffre uno stigma negativo, significando “colei che trionfa”; ma che entrambe le accomuna in un destino di morte, di reiezione.

E “Nomen-Omen”, che dà titolo all’opera, più che indicare l’impronta del destino da sempre già sigillata nel nome di ciascuno, va perciò letto e compreso come la terribile constatazione secondo cui allo stesso nome segue necessariamente lo stesso destino, non perché quello contenga in se questo, ma perché questo rappresenta l’inevitabile svolgimento di quello: non una condanna, dunque, ma una necessità.

Il ruolo svolto da questa necessità (non a caso l’ananke della tragediografia attica) riporta immediatamente in primo piano la duplicità di questa rappresentazione: la figlia di Priamo, per un verso, totalmente immersa nell’orizzonte mitologico che teatralmente la partorisce, del quale ella è intrisa e che a volte sospinge il coro a recitare alcuni versi – tratti presumibilmente dall’Agamennone di Eschilo – in greco antico: ne viene un effetto elegantemente straniante, ma privo di ogni fastidiosa forma di concettualizzazione che sarebbe stato puro veleno per l’espressione artistica; per altro verso, la figlia di Biagio, testimone di una Sicilia antica, ma ancora presente nella memoria dei nostri avi, vittima dolente di un matrimonio combinato per interesse, indotta al più terribile annichilimento.

E quando la prima parla, par quasi risponda la seconda; e se questa si dispera, allo spettatore sembra che le lagrime siano di quella; perché qui di due destini se ne fa uno soltanto: ed è questo che conta.

Per la regia, qui il rischio era ovviamente altissimo: dissipare – nel tentativo di accostare le due vicende parallele – la genuinità di ciascuna, la sua irripetibile unicità. Invece, la prima Cassandra sembra quasi dissolversi nell’altra, ma senza mai sparire, anzi esaltandone la figura e viceversa: un vero miracolo di equilibrio narrativo ed estetico, messo in opera dalla magistrale regia della Calì.

Ma nulla di ciò sarebbe stato possibile senza la convincente interpretazione dei tanti attori, cantanti, danzatori, da accomunare tutti in un unico e vibrante applauso.

Due ultime notazioni irrinunciabili.

La prima riguarda il luogo prescelto per la rappresentazione. Un magnifico complesso architettonico modicano tardo medievale che è divenuto, strada facendo, un vero luogo dell’anima e che, come tale, ha contribuito ad alimentare la raffinata bellezza del testo e della scena.

La seconda invece per lodare la sensibilità interpretativa di Giuliana Distefano, la quale, intonando la celeberrima “E vui durmiti ancora…” – scritta da Giovanni Formisano e musicata da Gaetano Emanuele Calì – subito dopo l’emistichio “lassati stari…” ha saggiamente atteso per un decimo di secondo prima di continuare, mostrando di ben sapere come una impercettibile pausa di silenzio, un indugio, siano importanti al pari delle note, perché veicolano il chiaro-scuro di un’anima che canta.

Un nulla che vuol dire tutto.

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