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RECENSIONE – NON SO CHE FARE PRIMA

Uccio De Santis porta in scena quella comicità che, purtroppo, oggi manca.

di Vincenzo Vitale

Far sorridere o addirittura ridere gli spettatori è notoriamente più difficile che farli commuovere. Per questo tradizionalmente, nella storia del teatro, una collocazione di assoluto rilievo viene riservata alla commedia – considerata da alcuni benpensanti sorella minore della tragedia (come se Menandro fosse un autore minore rispetto ad Euripide) – ma forse più ancora di questa destinata a svelare aspetti poco noti della condizione umana o del legame sociale.

Ce lo dimostra in modo impareggiabile Uccio De Santis che, con il suo gruppo costituito da Umberto Sardella, Antonella Genga e Giacinto Lucariello, in “Non so che fare prima“, andato in scena presso il teatro Comunale di Zafferana Etnea, è riuscito a far rivivere quelli che molto tempo fa furono i successi del cabaret, manifestazione teatrale di nobile ascendenza e purtroppo oggi quasi sparita dalle scene.

De Santis ha infatti saputo con naturalezza e vivezza di spirito toccare corde profonde del nostro stare nel mondo, ma – come si conviene ad un capocomico nel senso più autentico del termine – con garbo e leggerezza.
Uno spettacolo vivo, imprevedibile e coinvolgente, condotto con mano sicura e sapiente nel solco certo della tradizione e tuttavia con la sensibilità dell’uomo di oggi che viene chiamato a misurarsi con realtà nuove e prima sconosciute.

Almeno tre credo siano i meriti di questo spettacolo, alla fine del quale allo spettatore rimane il rammarico di chi vorrebbe il perpetuarsi (impossibile) dell’azione scenica.
Il primo è dato dalla stessa personalità teatrale di De Santis, ovviamente pervasiva – come è giusto che sia – ma non invasiva delle altre presenze sul palcoscenico.
Il secondo dal fatto che gli altri tre attori sopra menzionati non si muovono come semplici “spalle” del protagonista, ma, ciascuno a suo modo e nel tempo debito, riempiono la scena con una propria identità definita e riconoscibile.
Il terzo sta invece nella circostanza – oggi rarissima, per non dire inesistente – che in tutto lo spettacolo mai si ceda al turpiloquio, alla parolaccia volgare e ridanciana, al gergo di strada che può assicurare la grassa risata e il facile applauso, ma a patto di far scadere la qualità complessiva dello spettacolo a livello non popolare, ma popolaresco.

Al contrario, tutta l’azione scenica si svolge sul filo di una ironia garbatissima, capace di “al-ludere” e anche di “il-ludere” lo spettatore, inducendolo alla risata per un doppio senso o per una parola non detta da nessuno ma da tutti pensata, e che per questo non “de-lude” mai.

Una comicità dunque, sapidamente ironica, tessuta di intelligenza, oggi perfino necessaria e che a tratti richiama quella di Achille Campanile, certamente il più grande umorista italiano degli ultimi decenni, per esemplificare la quale – per chi non lo conoscesse – mi piace ricordare qui una delle sue celebri ed immortali “Tragedie in due battute”: “Il primo: Mi scusi, lei è pazzo? Il secondo: No. Sono sordomuto”.
De Santis son certo apprezzerà.

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