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RECENSIONE – APPUNTAMENTO A LONDRA

Una camera d’albergo, due personaggi, un testo enigmatico: Appuntamento a Londra di Vargas Llosa, con Tabita e Lavia, non smette di ipnotizzare

di Paolo D. M. Vitale

Quanta distanza c’è tra essere e dover essere? E quanta ancora tra essere e voler essere? E come determinare la verità dell’essere quando l’essere stesso non sa autodeterminarsi?

Probabilmente Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010, deve essersi posto queste e altre domande quando scriveva Appuntamento a Londra, una pièce teatrale che lascia spaesati e pieni di interrogativi.

L’azione si svolge tutta dentro la stanza d’un albergo, a Londra per l’appunto. Luca, un uomo d’affari in viaggio, riceve la visita di Maddalena, una donna sconosciuta che dichiara di essere la sorella di Nino, un tempo il migliore amico di Luca.

Inizia così un vero e proprio duello verbale che nell’arco di un’ora e mezza ribalta più e più volte le certezze degli spettatori. Vargas Llosa sembra giocare col pubblico come un gatto farebbe col topo: inizia suggerendo un timido pensiero, poi lo rafforza fino a quando sembra essere l’unica spiegazione plausibile e infine, nel momento in cui si è finalmente convinti di aver capito, distrugge ogni certezza per ricominciare da capo.

Scopriamo così che Maddalena è la sorella di Nino, ma poi che Nino non ha mai avuto una sorella; che Nino è vivo, ma che Luca l’ha ucciso; che la storia è accaduta veramente, ma che Luca sta solo sognando; che Nino non esiste, ma forse invece si.

Un testo complesso, a tratti cervellotico. Vargas Llosa indaga il rapporto tra verità e idendità, lasciando intuire che, secondo lui, la verità esiste solo come relazione tra individui in una sorta di autocreazione reciproca continua e dinamica. Si è solo nella misura in cui si è qualcosa (o qualcuno) per l’altro e poi ancora siamo quello che noi stessi pensiamo di essere. Ed è per questo che possiamo essere infinite identità tutte vere e tutte false. Un cortocircuito mentale dal quale è difficile uscire.

Il Teatro Stabile di Catania ha affidato il difficile compito di rappresentare questa complessità a Luigi Tabita (Luca) e a Lucia Lavia (Maddalena).

Sopratutto all’inizio dello spettacolo si avverte una marcata differenza tra lo stile recitativo della Lavia e quello di Tabita: sopra le righe ed esagerato il primo, realistico e spontaneo il secondo. Ne deriva, inizialmente, un senso di fastidio che però viene meno man mano che si entra nel vivo della vicenda, quando si inizia a capire che probabilmente Maddalena non è chi dice di essere e che anzi, forse, non esiste nemmeno! A quel punto la recitazione poco realistica della Lavia acquista un significato e perfino un valore aggiunto. Non ci è chiaro se sia stato un effetto voluto o un semplice caso, ma quello che importa è che alla fine la cosa ha funzionato.

Tabita dal canto suo ha restituito un Luca più credibile, misurato e profondo, senza dover calcare la mano sulla tecnica, impresa difficile considerando lo stile marcato della sua compagna di palcoscenico. Il suo Luca è risultato essere così molto “umano” e poco “maschera”, un Luca con cui è possibile immedesimarsi e provare empatia.

Lo spettacolo che stiamo recensendo fa riferimento ad una recita al Teatro dei Filodrammatici di Milano in cui, per motivi di spazio, è andato in scena con un impianto scenografico ridotto. Per questo motivo, purtroppo, non possiamo commentare la scenografia originale di Anna Varaldo e le luci di Gaetano La Mela, anche se dalle fotografie ci sono sembrate essere molto interessanti.

Un plauso infine alla regia di Carlo Sciaccaluga che ha scelto di non fornire chiavi di lettura univoche, ma anzi di accentuare gli interrogativi: chi è, in definitiva, Nino? E chi siamo noi?

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