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RECENSIONE – L’ISOLA DEGLI IDEALISTI

“L’isola degli idealisti” diretto da Elisabetta Sgarbi tra dilatazione del tempo e sconfinamento dai luoghi.

di Vincenzo Vitale

“L’isola degli idealisti” – per la regia di Elisabetta Sgarbi, che, insieme ad Eugenio Lio, è anche autrice della sceneggiatura, tratta a partire da un giallo di Giorgio Scerbanenco – non è soltanto un film: è invece la delicata ed inattesa comparsa nel linguaggio cinematografico di una sottile poetica simbolista rivissuta e compenetrata attraverso la forza delle immagini.

Queste, infatti, al pari dei versi di Rimbaud, si offrono allo spettatore nella indeterminatezza spaziale e temporale di un luogo assente e di un tempo indefinito: “Nelle azzurre sere d’estate, me n’andrò per i sentieri, punto dalle spighe, calpestando l’erba tenera: sognando, ne sentirò ai miei piedi la freschezza. Lascerò che il vento bagni la mia testa nuda. Non parlerò, non penserò a nulla: ma l’amore infinito mi salirà nell’anima, e andrò lontano, molto lontano, come un vagabondo, attraverso la Natura – felice come con una donna”.

In questo mondo senza confini – perché luogo e tempo sono quelli stessi dell’anima – si incontrano delle esistenze.

Da impenetrabili nebbie lagunari emergono infatti due fuggiaschi – Guido, reso da Renato De Simone e Beatrice, interpretata da una ispiratissima Elena Radonicich – il quali, rei di un delitto, trovano rifugio in uno sperduto isolotto ove troneggia un’enorme ma decaduta dimora patrizia, abitata da indecifrabili personaggi.

Il vecchio Antonio Reffi, reso dalla impareggiabile e sperimentata qualità recitativa di un ironico Renato Carpentieri, direttore d’orchestra in pensione; i suoi figli, Celestino, già medico ma radiato dall’albo, dovuto ad un pensoso Tommaso Ragno e Carla, scrittrice fallita, impersonata dalla spigliata Michela Cescon; il fedele e silenzioso “factotum” Giovanni, cui dà vita Tony Laudadio; l’ambiguo segretario Vittorio, aspirante scrittore, reso da Mimmo Borrelli; la governante Iole – che di questi è l’amante – impersonata da Chiara Caselli; e infine, a frequentare quella casa, lo spregiudicato Commissario Càrrua ( e non Carrùa), che conduce le indagini, dovuto a Vincenzo Nemolato e la violinista Hildegard De Stefano, che appare a tratti, come in un sogno.

Il succo della trama. I due ladruncoli chiedono protezione dalla polizia e Celestino, disponibile a nasconderli, vincendo le resistenze di Carla, la subordina ad una condizione: dovranno accettare che egli provi, per dir così, a redimerli, facendo loro intendere e assimilare che esiste anche una vita diversa, ove si può fare a meno di delinquere.
Essi – per opportunismo – accettano, ma ovviamente ogni tentativo in tal senso sarà vano, perché la redenzione non si conquista con la dialettica discorsiva, ma con la testimonianza della vita che tuttavia Celestino – radiato per aver aiutato a morire, con una iniezione letale, la propria donna malata e perciò egli stesso bisognoso di redenzione – non può propiziare: nessuno può dare ad altri ciò che egli stesso non possiede.

Eppure è proprio in questa fase preliminare e appena accennata che la vicenda acquista un inaspettato spessore compiutamente filosofico, mediato dalla rappresentazione artistica, e che la segnerà per tutto il suo svolgimento.
I dialoghi tessuti fra Celestino e Beatrice circa il significato della menzogna nel suo rapporto con la verità – anche al di là delle intenzioni – molto debbono infatti alle riflessioni da Agostino espresse nel celebre De mendacio.
Ma più in generale, alla scelta registica tesa alla dilatazione del tempo ed allo sconfinamento dai luoghi sembra poi bene attagliarsi la celebre interpretazione – offerta da Deleuze – dello strumento cinematografico come sistema di narrazione del tutto autonomo ed autosignificante nel transito dalla “immagine-movimento” alla “immagine-tempo”, vale a dire da una dinamica lineare e progressiva della narrazione, ad una attraverso la quale l’azione è subordinata ai tempi dilatati, perché qui è proprio il tempo interiore – quello stesso della coscienza direbbe Bergson – a dettare le regole di svolgimento del film, nel solco di una dinamica discontinua e di un ritmo narrativo spezzato, che evocando il passato proietta lo spettatore verso il futuro.

Ecco allora la sapiente regia indugiare su particolari a prima vista superflui – come quando mostra Vittorio, a torto persuaso di essere posseduto dalla Musa, mentre batte e ribatte, sul foglio ingoiato dalla macchina da scrivere, le stesse parole all’infinito e prive di senso (come non scorgere qui una citazione da Shining di Kubrick?). Oppure, quando evoca dal nulla la figura di una giovane violinista che, del tutto decontestualizzata, interpreta – se non erro – il terzo Concerto Brandeburghese (come non scorgere qui echi di Antonioni?).

Sono non soltanto momenti di intensa espressività registica, ma prima ancora di un linguaggio che, non contentandosi di aver preso le mosse da una pregevolissima narrazione giallistica – come quella di Scerbanenco – e rifiutandosi di sottostarvi, riesce a sublimarla attraverso lo strumento cinematografico, che diviene in tal modo capace di cogliere ed esprimere la realtà dei rapporti umani in modo nuovo e diverso rispetto alla stessa scrittura romanzesca dalla quale era stato ispirato.

Qui allora l’arte cinematografica – intrisa di una severa ed autonoma concettualizzazione – si costituisce come autentica forma del pensiero.
Un pensiero tuttavia non esente da uno stuzzicante e sapido umorismo, forse non immune dalla lezione di Hitchcock: quando infatti, dopo varie vicessitudini, Beatrice e Celestino – riemersi dal mondo oscuro e nebbioso – si aprono insieme alla luce della vita, la prima, che il secondo riteneva completamente redenta, gli mostra, con divertita arguzia, un braccialetto da lei con destrezza sottratto dal braccio di una signora appena incontrata in ascensore.

E Celestino, finalmente libero, sorride.

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