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REVIEW – SERVO PER DUE

servo per due

Forse in teatro non si inventa mai davvero niente di nuovo, ma che bello quando si sa inventare un nuovo modo per proporre quello che nuovo non è

servo-per-due4di Lucio Leone

Viviamo nell’oggi, e siamo abituati a pensare che solo l’oggi sia moderno. In realtà, tutto quello che si sembra datato (diciamo “classico”, così da non offendere nessuno) ha avuto una sua gioventù, è stato moderno per i suoi tempi. Pensate a Carlo Goldoni per esempio. Padre della commedia così come la conosciamo oggi, stimato autore e importante figura della storia della letteratura italiana.

In un momento in cui nel nostro panorama teatrale riprende forza la polemica “classici sì/classici no”, con più voci che si levano a difesa di nuove opere e giovani drammaturghi contro l’uso improprio e continuo che si fa dei classici (nella hit parade al negativo del “non se ne può più” sul podio figurano certo Shakespeare e Pirandello, ma pure Goldoni non scherza) una operazione come quella di Servo per due, andato in scena per il proprio debutto milanese il 9 dicembre al Teatro Manzoni, potrebbe essere il classico uovo di Colombo.

Mi spiego meglio. Il buon Richard Bean, scrittore inglese classe 1956, confrontandosi con il goldoniano Servitore di due padroni ha ripreso lo spirito dell’opera e lo ha trasportato, adattandolo, alla Brighton degli anni ’60, pur rendendo onore e merito al suo illustrissimo predecessore. Operazione molto più intelligente e sottile che il limitarsi a rivestire con abiti e costumi moderni (o futuristi, o post apocalittici, o con gli attori tutti nudi… oh quante ne abbiamo viste!) i personaggi dell’opera originale. Della cosa ha saputo usufruire Pierfrancesco Favino prendendo così il Beaniano (chi la fa l’aspetti…) One Man, Two Guvnors e riportandolo però in Italia, adattando l’ambientazione al palato nostrano con un tocco “à la Fellini”. Fine delle premesse, ora tocca parlare dell’allestimento.

DB_P.Favino_0092-MEDIAChe è un gioiello. Ma sul serio. Fatto di intelligenti contaminazioni tra i generi (a memoria e in ordine sparso, ci sono: commedia dell’arte, avanspettacolo, parodia, varietà, musical, rivista, farsa ecc. ecc.) tutti perfettamente dosati come se nella mente di Favino e Paolo Sassanelli, che firmano a quattro mani la regia, il prodotto finale avesse una forma definita fin dall’inizio. Il rischio infatti è che tra tanti ingredienti uno finisca in corso d’opera per prendere il sopravvento sugli altri invece che concorrere alla definizione del sapore finale. Ma questo, appunto, non accade mai come del resto nessuno, tra i singoli componenti del cast, finisce per sovrastare gli altri. Raro esempio di generosità teatrale: ogni attore mette a disposizione del testo e della Compagnia il proprio talento. E se nei ringraziamenti qualcuno ha un applauso appena più forte degli altri è per via della simpatia del proprio ruolo, non certo per guizzi e furbizie da primadonna. Ma di nuovo: applausi alla regia, estremamente intelligente, che ha saputo scavare non solo nella caratterizzazione dei personaggi, ma anche nelle loro piccole nevrosi e vite così da renderli umani benché parodistici, e che ha poi saputo orchestrare un ritmo incredibilmente veloce e serrato di scambi, ingressi, porte sbattute e battute precise al limite del chirurgico per un esempio di recitazione da manuale.

Far ridere non è cosa da tutti. Far ridere sfondando la quarta parete e coinvolgendo il pubblico, senza creargli disagio, nemmeno. Saper cucire i due diversi ritmi sul palco e in platea è il massimo grado di difficoltà, ma qui succede. Grazie anche al Pippo-Arlecchino di Favino che è una summa di quanto di meglio i suoi illustri maestri -non solo della commedia dell’arte- hanno saputo offrirgli. La tenerezza di Macario, la vulnerabilità di Peppino, la fisicità di Walter Chiari, gli stralunati tempi comici dei De Rege, le occhiate di Fabrizi, i nonsense di Totò mi hanno fatto pensare a una Teca Rai umana. Tra una risata e l’altra intendo.

servo_per_due_favino_2Menzioni doverose per il primo cast della Compagnia Danny Rose (si alternano due cast completi nello svolgimento della tournée e sono troppi -e tutti in fondo meritori per un motivo o per l’altro- per citarne uno a discapito dei compagni); per le coreografie di Fabrizio Angelini (molti coreografi di musical con budget dovrebbero tornare a ripetizione per vedere cosa riesce a fare con attori e non performer); per le scene con tanto di nave dei sogni finale di Luigi Ferrigno (la Rimini del 1936 era tutta davvero lì) e soprattutto per quartetto Musica da ripostiglio, che ha saputo accompagnare musicalmente tanto le azioni sceniche che i siparietti ritagliandosi un cameo prezioso nello spettacolo. Il fatto che le canzoncine dell’epoca, riarrangiate ed eseguite dal vivo fossero canticchiate in tempo reale da tutto il pubblico a prescindere dall’anagrafe dimostra come certi motivetti abbiano finito per iscriversi nel DNA collettivo, e se proprio dobbiamo stare a controllare i decibel degli applausi finali ai ringraziamenti (ma tutti erano comunque nella fascia altissima del fonometro) i loro erano paragonabili a quelli di Favino.

Detto tutto? Quasi. Manca solo una nota personale. A proposito di quella polemica classici sì/classici no… io sono sicuro che se questo spettacolo lo avesse visto Goldoni gli sarebbe certamente scappato un “Ostrega ma che brài che son ‘sti putei, ciò”. Tra una risata e l’altra intendo.

Forse in teatro non si inventa mai davvero niente di nuovo, ma che bello quando si sa inventare un nuovo modo per proporre quello che nuovo non è di Lucio Leone Viviamo nell’oggi, e siamo abituati a pensare che solo l’oggi sia moderno. In realtà, tutto quello che si sembra datato (diciamo “classico”, così da …

Review Overview

REGIA
INTERPRETAZIONE
MUSICHE
RITMO

PAGELLA CENTRAL PALC

Summary : "Sono sicuro che se questo spettacolo lo avesse visto Goldoni gli sarebbe certamente scappato un "Ostrega ma che brài che son 'sti putei, ciò"

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