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RECENSIONE – IL MERCANTE DI VENEZIA (regia Paolo Valerio)

Un Mercante di Venezia che indaga il testo e il sottotesto dell’opera shakesperiana.

Shakespeare oggi per essere apprezzato appieno dovrebbe essere sforbiciato qua e là ed è il caso anche di questa nuova produzione del Mercante di Venezia (traduzione di Masolino D’Amico) del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia/Centro Teatrale Bresciano/Teatro degli Incamminati, che ha aperto la stagione 2022/23, firmata dal direttore artistico Paolo Valerio.

Tutta quella sceneggiata dei poveri principi di Marocco e di Aragona (rappresentata, chissà perché, in questa edizione come una pantomime) che cercano il ritratto di Porzia nei tre scrigni per poterla sposare e soprattutto la questione degli anelli sono di una lungaggine senza pari.

Ma assistendo alla prima lo scorso 11 ottobre in effetti ci si chiede se questa sia la storia di Porzia, di Antonio, il mercante di Venezia o di Shylock. Harold Bloom ha definito Il Mercante, per quanto problematico, una commedia romantica, il dramma di Porzia.
Di solito l’attenzione si è appuntata sul personaggio prorompente di Shylock, nonostante Shakespeare non gli abbia concesso molte battute.

Paolo Valerio invece ha, di questo intreccio complesso, messo in scena tutto il sottotesto, sottolineando, non proprio fino in fondo, i legami amorosi che l’autore ha cesellato come una impalpabile filigrana. Ed ecco che le due ore quaranta giganteggiano.
Ne vien fuori molto bene il rapporto tra Porzia (Valentina Violo) e Nerissa (Dalila Reas), la sua ancella, una complice, un’amica, due attrici dalla dizione chiara, solari, una recitazione gioiosa e trascinante, ma perché farle muovere come burattini senza fili? Si intersecano poi in maniera disinvolta le tre coppie di innamorati: Porzia e Bassanio (Stefano Scandaletti); Nerissa e Graziano (Giulio Cancelli); Jessica (Mersila Sokoli) e Lorenzo (Lorenzo Guadalupi).

Ottima la trovata di far sedere sulle panche in scena gli attori nell’attesa del loro turno; panche che possono essere usate in vari modi, come passerelle, come sedili.
Non emerge granché invece l’amore di Antonio (Piergiorgio Fasolo) per Bassanio. Sì, ci sono un bacio e un abbraccio iniziali che si eclissano nelle battute dei molti personaggi e lasciano il pubblico un po’ perplesso. Sempre che se ne sia accorto. Perché all’inizio Antonio si dichiara triste e stanco? Perché innamorato di Bassanio, un playboy squattrinato che assieme all’amico Lorenzo è a caccia di ereditiere. Antonio per Bassanio è disposto a tutto, mettendo a repentaglio la sua stessa vita, ma nello svolgimento della trama dopo quel bacio iniziale non è chiaro il suo comportamento. A parte quella battuta sull’anello che Bassanio dovrebbe donare al giudice (Porzia travestita), «che i suoi meriti e l’affetto che hai per me prevalgano sui comandamenti di tua moglie!».

Nonostante una recitazione un po’ sottotono, è Antonio il cattivo della situazione, quello che continuerà a sputare e a prendere a calci l’ebreo, quello che impone la conversione forzata a Shylock. L’usuraio ebreo cerca di sopravvivere in quella Venezia mercantile, un tempo laica, ma che dalla seconda metà del Quattrocento vedrà fiorire un clima antiebraico con la separazione de facto della comunità nel ghetto.
Il personaggio di Shylock (un grande Franco Branciaroli che dovrebbe però incominciare a recitare come Franco Branciaroli e non rifacendosi agli attori del passato, con quella parlata partenopea) è ottuso nella sua insistenza a farsi pagare con la libbra di carne, mentre Bassanio gli offre i soldi del debito grazie al vantaggioso matrimonio con la ricca Porzia, accecato com’è dall’odio nei confronti di Antonio. Tuttavia la scena in cui affronta il doge di Venezia (l’immagine è quasi tiepolesca con il doge ammantato di rosso su sfondo nero), insistendo che la sua obbligazione venga rispettata, è di una modernità bruciante, ma i cavilli forensi, si ritorceranno contro di lui. La giustezza del patto siglato diventa un’arma a doppio taglio che nuocerà Shylock perché la giustizia è una dea bendata.

Il cast è ben assortito, tutti ottimi nelle loro parti, citiamo ancora Mauro Malinverno nel ruolo di Lancillotto, il servo dell’ebreo e di Tubal, l’amico di Shylock. Abbiamo trovato sprecati invece Francesco Migliaccio ed Emanuele Fortunati nei piccoli ruoli assegnati rispettivamente in quelli di Salerio/Doge e quelli di Solanio/Principe di Marocco. Gli attori, vestiti da Stefano Nicolao – deliziosi i costumi di Porzia e Nerissa – si muovono nella scena monumentale di grande impatto visivo a due piani di Marta Crisolini Malatesta, illuminata da un maestro delle luci qual è Gigi Saccomandi.

Lo spettacolo diventa così uno specchio dell’anima di ciascuno, porta a riflettere su quello che siamo e su come ci vendiamo al mondo, sul dio soldo attorno al quale da sempre ruota il mondo e anche sul montante antisemitismo di oggi.

Ultima osservazione, buono l’uso dei microfoni per gli attori, visti i deficit acustici della Sala Assicurazioni Generali del Politeama Rossetti, ma l’amplificazione deve dare un aiuto, non deve amplificare, appiattendo il colore della voce. Magari la prossima volta si farà meglio, per il momento ci accontentiamo di non aver perso neanche una battuta.

Gli applausi sono scattati come un allarme antincendio.

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