La scenografia secondo Perrault: architettura per danzare sulla pelle della città
di Silvia Cattiodoro
Può la scenografia, che dovrebbe definire gli spazi, farsi pelle ossia strato superficiale ed effimero dell’organismo che dovrebbe rappresentare? E, in che modo questa pelle può tornare a farsi volume e, di conseguenza, materia strutturata?
Quando, ormai più di un decennio fa, scrissi del balletto “La Citè Radieuse” mi interessava indagare le posizioni di partenza di questo progetto. Il concept, messo a punto dal famosissimo coreografo belga Frédéric Flamand con gli studenti dell’Università IUAV di Venezia, era tutto basato sull’analisi dei Non-Luoghi – paradisi della standardizzazione e dell’anonimato dove vige un serrato controllo su ogni dettaglio del presunto benessere umano – e sulla considerazione che essi rappresentano la degenerazione dell’ultima utopia urbanistica di matrice positivista la Ville Radieuse. Ideata nel 1930 dal più famoso architetto del Novecento, Le Corbusier, rimane quasi un enigma nella laconicità dell’unico tassello comunemente chiamato Unité d’Habitation o Cité Radieuse realizzato a Marsiglia, città che accolse la prima mondiale dello spettacolo nel 2005.
Concentrata sulla riflessione riguardo gli effetti dello spazio globalizzato sul corpo umano, non mi ero resa conto che la “Maison du Fada” (la Casa del Pazzo, come i marsigliesi hanno soprannominato l’edificio) serviva solo come punto di partenza del balletto. D’altra parte, non mi era chiaro perché Flamand avesse voluto proprio il francese Dominique Perrault a configurare un panorama nel quale i suoi ballerini si potessero muovere e non a una qualsiasi altra star del panorama architettonico.
Perrault era una firma nota, non solo in Francia, grazie a qualche edificio costruito, tra cui spiccava la Bibliothèque Nationale de France, e alcuni concorsi vinti, ma al di fuori del settore non era un architetto conosciuto dai più. Da lui ci si aspettava che in pochi anni avrebbe coronato con un carapace dorato l’ampliamento del Teatro Marinskji a San Pietroburgo, poi tristemente naufragato nelle pastoie burocratiche della macchina statale russa.
Tutt’ora il suo studio si occupa assai sporadicamente di territori di frontiera tra arte e architettura, preferendo un impegno concreto nella costruzione della città e una ricerca orientata verso il campo tecnologico.
Quale poteva essere dunque il contributo di Perrault in un dibattito orientato ai concetti di vivere fluido nel gigantismo urbano dove si perde il rapporto tra dimensione umana e luogo costruito, che era invece il campo di ricerca di Flamand?
Con il suo apporto “La Cité Radieuse” divenne un lavoro non più solo sul Modulor lecorbuseriano – la proporzione aurea basata sulla dimensione del corpo umano – e sulle implicazioni relative all’euritmia e all’ergonomia, ma piuttosto sulla nuova dimensione superficiale della vita del Terzo Millennio.
Flamand aveva colto – e intendeva sottolineare – la corrispondenza tra la ricerca di Perrault sul «vestito di luce appoggiato con leggerezza attorno a un corpo dalle forme essenziali» e l’affermazione di Le Corbusier che «gli elementi dell’architettura sono la luce, l’ombra, il muro, lo spazio», cosciente però che tra i due c’era la stessa distanza intercorsa tra la società industriale e la società dello spettacolo. Del resto l’ Unité d’Habitation vista frontalmente con il suo ritmo serrato di pieni e vuoti, sospesa dal terreno come se fluttuasse e con i muri delle logge vivacemente dipinti a colori primari poteva evocare una tela trapassata da fasci di luce colorata, attraente metafora di un cinema urbano a cui tutti potevano assistere.
Il dispositivo scenico de “La Cité Radieuse”, costituito da schermi mobili di rete metallica, supera il tradizionale assetto a quinte che fa da cornice all’azione e si confronta con il corpo reale in un gioco di apparenze e sparizioni dove tutto il costruito è pelle di uno spazio di volta in volta modificabile.
Attraverso questa attenzione alle superfici, il team di artisti cocercava di esprimere l’essenza comunicativa e non più quella tradizionalmente costruttiva dello spazio scenico e di conseguenza della città. Dall’iniziale geometria modulare del cubo i muri-diaframma vengono spostati evocando negli spettatori i Non-Lieu di Marc Augé: aeroporti, centri commerciali, stazioni, raccordi, autostrade.
Leggero e pesante si invertono grazie alla superficie dei muri di tulle metallico: gli elementi che dovrebbero fingersi solidi appaiono leggerissimi, mentre le immagini, evanescenti, diventano il vero oggetto materico. La rete d’acciaio a moduli orizzontali divenuta nel tempo la cifra stilistica di Perrault si fa più o meno trasparente a seconda dell’angolo di incidenza della luce e gli permette di estendere la sua ricerca architettonica dal piano tecnologico a quello concettuale: la nuda struttura si veste in una forma lirica come di merletto, proteggendo senza separare, definendo l’interno dall’esterno senza che la vista venga interdetta.
Alle morbide forme di un tessuto-tenda, usato qualche anno dopo nel Grand Théâtre d’Albi in Occitania, l’architetto predilige qui il tessuto griglia, evoluzione meccanicistica e industriale del classico fondalino in tulle d’impiego teatrale, che aderendo strettamente allo scheletro strutturale a carrello ne mette in risalto la geometria. Sono luce e proiezioni a dare un effetto costruttivo, non già con tecniche di videomapping, ma con immagini che si fondono alla rete diventando textures.
Si disegna così una realtà geometrica seppur spezzata dalla variabile del movimento, che si pone come antagonista alla geometria corporea di cui il Modulor e la danza rappresentano due aspetti connessi ma percepiti ormai come utopici nella sproporzione delle megalopoli contemporanee.
L’architettura è tutto ciò che accade tra la pelle di una persona e la pelle di un altra (Diller Scofidio + Renfro)