Renzo Mongiardino: l’antico e la ricerca della bellezza
di Silvia Cattiodoro
Chi tra i lettori conosce il lavoro di Renzo Mongiardino (1916-1998), architetto, scenografo e progettista di interni di origine genovese, cresciuto nella Milano di Ernesto Nathan Rogers che alloggiava nella stessa pensione ai tempi degli studi di architettura, e di Gio Ponti, che lo laureò al Politecnico nel 1943?
Devoto ai valori della tradizione e dell’artigianato, lontano dalla ribalta del Movimento Moderno e dalla sua critica, estraneo ai diktat del funzionalismo e del post-moderno, il suo nome non è mai stato tra quelli presenti nei manuali di architettura italiana del Novecento. «Nemo propheta in patria» è forse la frase che gli si addice di più, se estendiamo il concetto di “patria” al settore lavorativo entro cui ognuno di noi “risiede” per gran parte della propria vita.
Se i più attempati tra i frequentatori del teatro d’opera potranno forse ricordare il suo nome associato a un aspetto lavorativo che ne formò gusto e metodo – la scenografia – certamente alla maggioranza degli architetti è ignoto.
Mi riferisco in primo luogo a quella generazione di professionisti cresciuti sotto una sorta di parasole, la cui ombra si è perpetuata per anni, che tendeva a eclissare gli interpreti della modernità come reinvenzione del Classicismo. Erano considerati nostalgici incapaci di adattarsi alla logica del «less is more» in un’Italia che doveva crescere solo attraverso tecnicismi, linee rigorosamente rette e esternazioni di stampo politico. Al contrario, all’estero Mongiardino era ed è un nome che richiama immediatamente lo stile italiano, inconfondibile per cura dei dettagli, ricerca storica e personalissima interpretazione dell’antico.
La committenza sorride a Mongiardino fin da subito, prima facendone – grazie anche alla parentela acquisita dalla sorella con gli imprenditori Crespi – l’arredatore prediletto della buona società lombarda e poi lanciandolo sulla scena internazionale dove ha firmato le abitazioni per collezionisti e amanti dell’arte: i Thyssen, gli Onassis, gli Agnelli, i Rothschild, i Versace.
Aver lavorato quasi esclusivamente per alcune delle dimore più affascinanti della seconda metà del XX secolo non ha, però, contribuito a renderlo noto come architetto, complice la privacy totale che veniva richiesta dai committenti. Inoltre, negli anni del regno del Movimento Moderno, quando colori e ornamenti erano ostracizzati, egli si distingueva per lo stile sfarzoso, in controtendenza, accostando oggetti d’antiquariato con altri d’uso comune, tessuti preziosi a tarsie lignee, materiali ricchi e poveri senza gerarchie di valori: la decorazione era per lui elemento principe degli ambienti al punto che frequentando quelle case ci si poteva chiedere se si fosse finiti dentro un set, in una scenografia da appartamento che riportava la bellezza e un non-so-che di onirico sui palcoscenici delle nostre vite.
Lo stile Surreal-neo-barocco che già lo contraddistingueva si andò perfezionando a partire dalla fine degli anni ’50 grazie a un confronto che continuava fin dall’infanzia con la costumista e scenografa Lila de Nobili. Fu lei, compagna di giochi e travestimenti da bambini, che lo introdusse in tutti i sensi nel mondo del teatro che – lettere e scritti conservati dagli eredi ne danno evidenza – egli già si sentiva a proprio agio, dove incontrò tra gli altri Peter Hall e Franco Zeffirelli.
Il “Don Pasquale” diretto da Zeffirelli a Genova (1958) fu in tal senso il suo debutto: l’illusione dello spazio teatrale sposava il realismo dei dettagli classici delle sue dimore. Così come la vita vissuta in un tale ambiente assume carattere artistico, altrettanto l’arte di narrare sul palcoscenico si fa più “domestica” e prossima, pur senza scadere nell’ovvietà del quotidiano.
Nei successivi trent’anni seguirono numerose affermazioni in campo teatrale. Da “I due gentiluomini di Verona” (regia di P. Hall, 1960) in cui il bugnato del Palazzo dei Diamanti di Ferrara e le terrecotte bramantesche per la sacrestia nuova di Santa Maria presso San Satiro (realizzate da Agostino De Fondulis) rievocano il Rinascimento italiano sul palcoscenico di Stratford-upon-Avon quando nell’ambiente teatrale vigeva un clima di pieno “revival” medievale, al successo unanime dell’ “Eugenij Onegin” al Festival dei Due Mondi (regia di G. Menotti, 1996), Mongiardino era in grado di anticipare sulla scena tendenze che sarebbero state diffuse di lì a poco da “Casa Vogue” e dalle maggiori riviste di interior.
Basta ricordare la “Tosca”, interpretata da Maria Callas e diretta al Covent Garden da Zeffirelli (1964), per capire quanto l’architetto del jet-set internazionale abbia agito nel nostro inconscio collettivo rielaborando e modificando quell’immagine di classicismo usata e oggi data quasi per scontata dagli scenografi e dagli interior designer. Un esempio? Alla sontuosità del broccato nello studio di Scarpia si abbina il trattamento del pavimento che evoca lastre di marmo bianco intervallate da tozzetti in colore a contrasto. Pochi sanno che si tratta di un tipico pavimento della tradizione genovese, il bullettonato, la cui diffusione nell’ultimo quarto del ‘900 è stata enorme fino a diventare oggi di un’eleganza generalizzata e quasi banale a causa della sua sovraesposizione mediatica.
Mongiardino stesso ci chiarisce il suo metodo nel libro “Architettura da camera”, vero e proprio manuale per la realizzazione degli interni che, come le sue architetture, è poco conosciuto e denso di riflessioni: «l’interesse per l’antico non nasce […] da un desiderio nostalgico di gareggiare con esso, ma dalla convinzione che le cose del passato, se amate, possano […] contribuire a rendere il mondo contemporaneo, se non migliore, in qualche modo meno ostile.»
Nel 1967, sempre in collaborazione con Zeffirelli, Mongiardino approdò al cinema disegnando le scene di La bisbetica domata, interpretata da Liz Taylor e Richard Burton, che gli valse la prima nomination agli Oscar: progettare per la pellicola significava non solo servirsi delle opere più note della storia dell’arte come riferimento, ma conoscere con precisione le forme e le decorazioni degli edifici del territorio veneto, anche quelli meno abusati e perciò più realistici: ogni scena, dettaglio per dettaglio, infatti venne ricostruita a Cinecittà.
Tale ricerca non poté che approfondirsi l’anno dopo, quando Zeffirelli rese la città di Verona regina di cuori sul palcoscenico internazionale con il film Romeo e Giulietta (1968).
Nell’anno dei grandi movimenti di contestazione giovanile, questa pellicola sui giovani, per i giovani e con i giovani (per il mondo del cinema i protagonisti, Olivia Hussey e Leonard Whiting, erano infatti degli sconosciuti teenagers) toccava non solo il noto tema shakespeariano dell’amore impossibile, ma anche quello allora più attuale dell’incomunicabilità e dell’incomprensione tra generazioni.
Mongiardino adatta i set in studio e le scene girate nelle locations luminose e aspre della Tuscia (Gubbio, Pienza, Artena, Tuscania) al carattere più fosco e arcano dell’architettura veneta. L’alcova dei due sposi, per esempio, viene isolata dalle pareti della stanza con un rivestimento in semplici teli bianchi decorati ton-sur-ton anziché mantenere a vista la cromia parietale che avrebbe smorzato l’idea di candore dell’intera scena (si veda lo stesso letto usato nella scena, oggi posizionato nella Casa di Giulietta a Verona).
In sostanza, con il suo lavoro teatrale e soprattutto cinematografico (con Zeffirelli ottenne una seconda candidatura agli Oscar per “Fratello Sole, Sorella Luna” del 1972 e per Liliana Cavani realizzò le scene di “Al di là del bene e del male”, 1977), Mongiardino è in grado di portare al grande pubblico quel gusto per il dettaglio, quel calore domestico, quella sontuosità di cui godeva la sua esclusiva committenza privata. Possiamo, perciò, dire che egli utilizzò il palcoscenico come mezzo di conoscenza e trasmissione del suo pensiero e modus operandi: veicolati dall’esposizione mediatica nei film che tutti volevano vedere e nelle riviste che tutti sfogliavano in edicola mentre aspettavano di comprare il quotidiano, i letti a baldacchino, le sale affrescate, gli arredi sfarzosi divennero in questo modo più vicini alla popolazione media e più desiderati di quanto non fossero mai stati.
Sostenevo che, in linea di principio, fosse giustissimo impiegare materiali come il vetro, la plastica o l’alluminio, ma che non si potesse disconoscere il fatto che la casa, l’oggetto-casa, fosse talmente antica da rendere gli atti e i gesti, che in essa si ripetono, in qualche modo indifferenti all’evoluzione tecnologica. Oggetti come la radio, l’aeroplano, il cinema, che prima della nostra epoca non esistevano, giustificano l’impiego di materiali, di tecnologie, e quindi di forme nuove, ma la casa, che è nata con l’uomo, non spiega – al di là di un fatto di gusto – quale differenza possa esservi tra lo stare seduti sopra una poltrona di Le Corbusier o su una poltrona Luigi XVI (R. Mongiardino)