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ARCHI-SCENICI. GAE AULENTI.

Gae Aulenti: la scenografia come testo

di Silvia Cattiodoro

Certamente è stato il Musée d’Orsay, all’allestimento del quale lavorò durante buona parte degli anni Ottanta (1980-87), a dare a Gae Aulenti fama planetaria. E anche se il Presidente Mitterrand lo aveva trovato troppo compiaciuto negli aspetti decorativi, ciò non le tolse l’attribuzione della Légion d’honneur, massima onorificenza dello stato francese.

A quel punto, anche l’infelice battuta di chi, con più di una punta d’invidia, aveva affermato «Se c’erano gli elefanti, era perfetto per l’Aida!» divenne meno fastidiosa di una leggera brezza estiva. Anzi, non fece altro che puntare l’attenzione sul fatto che alla milanese il celebre slogan «dal cucchiaio alla città» calzava a pennello.

Nei primi anni Sessanta era stata protagonista del design industriale puntando sull’ironia avanguardista e nel decennio successivo aveva dato vita insieme a Luca Ronconi e a Franco Quadri al Laboratorio Teatrale di Prato (1976-79), esperimento tra l’urbano e il teatrale che suggestiona ancor oggi la progettualità territoriale e le risposte culturali attuate nei luoghi non univocamente deputati al teatro.

Nel 1987 – anno di inaugurazione del Museo d’Orsay – l’architetto americano Peter Eisenmann, in uno dei suoi scritti più famosi, “La fine del Classico”, aveva affermato che l’architettura «va letta come un testo», come avevano sempre fatto gli antichi – anche se molti architetti l’avevano dimenticato – e come avviene in teatro, dove il significato di ogni architettura è enfatizzato dalla carica utopica che associa spazio agito a simbolo visibile.

Già da più di un decennio questo era il principio su cui lavorava in ambito scenografico, tra le varie espressioni progettuali che le erano proprie, Gae Aulenti: ormai lontano dall’essere didascalia, l’ambiente in cui un personaggio si muove, diventa simbolo in tre dimensioni della metafora che è il testo interpretato. Misure, proporzioni e forme volumetriche generano piuttosto un’idea di architettura come arte che un’allusione allo spazio: attraverso materiali che parlano del lato effimero dell’esistenza, l’edificio «è plastica e non è muro, è pittura e non è affresco, è lacca e non è marmo» come l’architetto milanese aveva affermato fin dagli esperimenti al Fabbricone di Prato.

La forma simbolica entro cui si organizza la forma architettonica è evidente nell’“Elektra” (1994) di Strauss dove il palazzo degli Atridi viene sintetizzato da un gigantesco muro tormentato da tagli e rientranze che evoca atmosfere espressioniste.
I titanici elementi scenici mobili su binari di cui è composto svelano, seguendo le maledizioni lanciate da Elettra, come la cucina sia in realtà una macelleria, la cantina una discarica colma di spazzatura e così via per tutti i luoghi dove ci si aspetterebbe gli agi e i lussi di corte.

Il tema del gigantismo dell’istituzione – familiare e sociale – contro cui si scontra la protagonista viene rappresentato nelle proporzioni e nell’impenetrabilità delle mura colossali che costruiscono uno spazio scenico in grado di agevolare ed enfatizzare l’interpretazione della regia.

La medesima funzione simbolica dell’architettura era centrale anche in “Zar Saltan” di Rimskij-Korsakov (1988). La principale fonte di ispirazione furono i disegni del pittore Ivan Bilibin, famoso per aver illustrato le fiabe di di Puskin, anche quella da cui fu tratta l’opera. Come un libro aperto davanti agli occhi degli spettatori, la scena viene “sfogliata” ricordando la genesi letteraria dell’azione teatrale.

Dal mare, elemento centrale di tutta la storia, luogo di separazione e ricongiungimento, sorge magicamente la città ideale in cui la memoria quattrocentesca si mischia alla forma a spirale delle conchiglie e delle città del mito… Atlantide, Troia, Ur. I piani orizzontali vengono ribaltati a seguire l’idea di scena-libro e, grazie alla posizione verticale, la città si mostra nella sua interezza – dalla porta d’accesso, alla rocca fortificata ai cammini di ronda – in forma di altorilievo sfruttando la virtuosa e accattivante soluzione della prospettiva dall’alto in voga a inizio Novecento quando Bilibin e Rimskij-Korsakov erano attivi. Le onde del mare che nell’illustrazione sembrano uscire dalle pagine e la città che si dispiega in più piani sovrapposti come in un mosaico bizantino, determinando un’idea dello spazio narrativa e non filtrata razionalmente, diventano materia, rappresentazione tridimensionale dello spazio pittorico: il fondale marino a gigantesche onde sovrapposte sembra spingere in alto la città-isola e nel contempo inghiottire minaccioso la scena per infrangersi sulla platea travolgendo gli spettatori.

Il luogo scenico liberato dalle convenzioni naturalistiche e dalle allusioni ad uno spazio non realistico, attraverso deformazioni visive e ottico-prospettiche non usuali, viene utilizzato come metafora di ciò che il territorio e la città potrebbero diventare se la ricerca architettonica non si limitasse alla percezione tradizionale.

Aulenti, con la semplicità di una fiaba ci parla di concetti filosofici nell’architettura, di come il Postmoderno allora dilagante stava rapidamente lasciando il posto al Decostruttivismo, con il quale l’architettura e la filosofia provavano a parlare di fluidità e di deformazione della visione.

Secondo Ronconi, con cui l’architetto condivise un sodalizio artistico durato dagli anni ’70 alla sua morte nel 2012, «la segreta contraddizione su cui si regge ogni messa in scena è quella di essere una sorta di architettura senza fondamenta o quantomeno dotata di fondamenta paradossalmente mobili»: qui possiamo ritrovare il significato di tutte le metafore architettoniche costruite sulla scena da Aulenti.

Testo e immagine, i due estremi del linguaggio – la semiotica e l’iconologia – si fondono: nel “Re Lear” del 1995 per esempio la follia e il linguaggio sconnesso corrispondono alle pareti barcollanti della scena in lamiera, instabile benché apparentemente robusta. Fino alle sue ultime scenografie – i mobili a mezz’aria di un interno fluttuante per “Il barbiere di Siviglia” al Rossini Opera Festival nel 2005 o il caseggiato-scaffalatura di “Un altro mare” per la riapertura del Petruzzelli a Bari nel 2011 – la linea di ricerca rimane la stessa: immagini e oggetti si combinano con testi e dialoghi in modo inscindibile, creando una realtà onirica declinata al tempo presente. Le une sono attivatori per gli altri attraverso simboli più o meno manifesti, come accade nella quotidianità, inducendoci a riflettere sul rapporto costante tra stabile ed effimero che attraversa l’intera opera di Aulenti, riunendo in un unico modo espressivo realizzazioni architettoniche, allestimenti e oggetti di design.

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