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ARCHI-SCENICI. GIO PONTI.

Gio Ponti: la scenografia come laboratorio del design

di Silvia Cattiodoro

Il viaggiatore che in un tardo pomeriggio autunnale degli anni ’60, sceso dal treno, fosse uscito sul piazzale della stazione di Milano, avrebbe trovato ad accoglierlo un edificio maestoso, illuminato come un faro nella nebbia, eppure leggero e trasparente.

Il grattacielo Pirelli si distingue ancora oggi con i suoi 60 anni nel panorama architettonico per essere tra gli edifici più alti d’Italia e non solo: non a torto lo scrittore Luciano Bianciardi lo aveva definito «una fiaba in verticale» per la sua capacità di incantare a prima vista.

In fin dei conti, l’architetto che lo aveva costruito, Gio Ponti, milanesissimo promotore di mode e arti, diceva che tra i bisogni primari dell’uomo c’era oltre il cibo, la casa, il vestito anche il bisogno di favola.

Non è un caso che Ponti, negli anni in cui consolidava la sua figura di architetto, abbia progettato anche spettacoli teatrali dando dimostrazione che disegnare un costume, scattare una fotografia, progettare un tavolo o un edificio rientrano nella medesima linea di continuità estetico-artistica di ciascun architetto.

Lungi dall’essere un divertissement da colto dilettante, questi lavori hanno collocato Ponti nella condizione dell’architetto classico o, com’egli stesso si definiva, «l’ultimo dei Rinascimentali»: come Brunelleschi, Raffaello, Bramante non si erano chiesti per ciascuna loro opera se stessero svolgendo di volta in volta un lavoro da architetto, da scenografo o da pittore, così per Ponti i progetti teatrali costituivano una parte vitale del suo “disegnare tutto”. Spazi e oggetti avevano nel palcoscenico il loro banco di prova prima di essere tradotti nel quotidiano e divenire icone del design.

Gio Ponti

Courtesy Gio Ponti Archive

Fin dalla prima esperienza teatrale risalente al 1937, l’architetto dichiara la sua intenzione di spazio nell’appunto autografo preso sul retro della foto di scena del balletto “La vispa Teresa”: «scena dinamica». La foto fissa ciò che nel qui-e-ora teatrale è in divenire: al movimento dei ballerini si aggiunge quello delle quinte che, superata la tradizionale forma e matericità di grandi tele armate dipinte, vengono trasformate in pareti a soffietto, le “modernfold”.

L’espediente, inaspettato in un ambiente avvezzo a ragionare in termini di pittura di scena piuttosto che di disposizione nello spazio, era necessario per allargare più o meno il campo visivo sul fondale dipinto, assecondando così la coreografia, ma verificava anche un meccanismo successivamente molto usato dall’architetto in ambito domestico. Una casa tutta trasformabile, attraverso prospettive inaspettate e pareti che diventano quinte, rappresentava quello «spettacolo di spazi» che per Ponti era interpretazione (termine non a caso mutuato dal palcoscenico) della vita.

Al dinamismo dello spazio si affiancava, però, uno studio attento per i dettagli della tradizione rielaborati in progetti di mobili e complementi d’arredo originali. Così, per “L’importanza di chiamarsi Ernesto” rappresentata nel 1940 a Napoli per la Fiera d’Oltremare dalla compagnia di prosa Cimara-Maltagliati-Ninchi l’arredamento di scena, pur strizzando l’occhio alla classica dimora inglese tardo-vittoriana, viene ripensato, trasformando il palcoscenico in un laboratorio.

A oggetti realizzati da Ponti in esperienze precedenti, come le grandi anfore per Richard Ginori o il caminetto con specchiera di gusto francese presentato alla Triennale del 1930, si affiancano idee appena abbozzate destinate a diventare in breve tempo grandi classici, come il lampadario in vetro che porterà il suo nome nella collezione Venini o la poltroncina Lotus rieditata da Molteni nel 2012.

Il palcoscenico diventa nel lavoro di Ponti il doppio perfettibile dell’abitazione, ribadendo il principio enunciato da Sebastiano Serlio nel 1545 secondo cui forme e oggetti sono personaggi di una perpetua rappresentazione. Essi oltrepassano la scena, agendo come attori e, una volta conclusa la rappresentazione, mantengono nella forma la spinta simbolica originaria anche una volta inseriti nella catena produttiva: la vis mimetica assunta al passaggio sul palcoscenico produce l’identificazione del potenziale acquirente con lo stile di vita del personaggio.

Altrettanto avviene per lo studio dei costumi, progettati dall’architetto con lo stesso metodo, in una continuità espressiva allora senza pari. Quelli del Pulcinella di Strawinskji andato in scena al Teatro dell’Arte di Milano, ad esempio, forti della Legge Mediterranea che Ponti aveva enunciato sulle pagine di “Domus” – «al mare tutto deve essere coloratissimo» – vanno quasi a sovrapporsi a una scenografia semplificata al massimo per ragioni economiche.

I 4 Pulcinella perdono l’austero bianco e nero con accenti rossi a favore di un più lombardo costume arlecchinesco, dove la caratteristica toppa non è ammasso confuso di stoffe differenti, né losanga geometrica della versione francese, ma progetto grafico per calici, vasi e piatti ricavato su giacche e pantaloni dal fondo a contrasto. L’intuizione verrà ribadita negli anni ’50 con la stampa in serie su tessuti per una iconica collezione di complementi d’arredo.

Il programma teorico si dichiara ancora in forma di fiaba in ognuno degli spettacoli progettati per il palcoscenico della Scala – quattro in nove anni – dal 1944 al 1953.

Ai balletti su musiche originali di Giuseppe Piccioli e Ennio Porrino fanno seguito le esperienze più mature con l’opera lirica barocca, opera d’arte totale che nasce dalla sintesi delle arti sul palcoscenico come Ponti aveva imparato studiando in gioventù gli scritti di Adolphe Appia.

Molte delle sue idee, troppo originali per un’epoca in cui il Barocchetto era lo stile più all’avanguardia che si potesse proporre nei templi italiani del belcanto, vennero rigettate interamente. È il caso della struttura a nicchie reiterate progettata per l’Orfeo di Scarlatti, che nei numerosissimi schizzi a penna conservati nei Gio Ponti Archives avrebbe dovuto ospitare il coro incombente in verticale sul protagonista, facendo al medesimo tempo da fondo vivo alla famosa Danza delle Furie e degli Spettri.

Ricusata dal regista a ridosso della prima, rimase confinata nel magazzino della Scala e quasi sepolta nella memoria per decenni prima di riaffiorare – non a caso in un edificio religioso – a Taranto. Con la vela della Concattedrale Ponti definisce una sua cattolicissima versione dei cancelli dell’Ade che, se non si aprono così facilmente come per Orfeo, ci permettono comunque di traguardare l’infinito.

Nel passaggio di scala, nei necessari compromessi tra matita e mattone, le invarianti progettuali immaginate in teatro si depurano e si precisano, ma l’essenza dell’effimero in bilico tra sogno e realtà non svanisce: va piuttosto a formare un magazzino mentale a cui l’architetto attinge per creare le mille sfaccettature di quella rifrazione infinita che fu il suo lavoro.

Amate l’architettura […], quel teatro che non chiude mai, gigantesco, patetico e leggendario nel quale noi ci muoviamo […] in una scena al vero, inventata ma vera (Gio Ponti)

About silviacattiodoro

Docente e architetto, dirige la collana “Obliquae Imagines” per la casa editrice in Edibus ed è curatrice del “Maria Callas Archive” presso la Fondazione Progetto Marzotto. Laureata in Architettura all'Università IUAV di Venezia, ha orientato i suoi studi successivi al rapporto tra architettura e performance grazie alla specializzazione in Scienze e Tecniche del Teatro, un Master in Museogafia e una tesi di dottorato in Design Industriale, Comunicazione e Espressione visiva sull'influenza dell'architettura nei progetti scenografici di Gio Ponti. Dal 2001 si occupa di didattica nei settori della Scenografia e dell'Interior Design presso diverse Accademie e Università: Politecnico di Milano, IUAV, Ca' Foscari Summer Program, ISAI Design Academy, Accademia Santa Giulia, Accademia Adrianea, Università di Siviglia, MIT Summer Program. Dal 2013 è abilitata dal Miur al ruolo di Professore Associato per le discipline della progettazione e dell'allestimento. Il suo studio, fondato nel 2002 a Padova, è specializzato in architetture residenziali, d'interni, allestimento e scenografia. La sua ricerca si concentra su architettura e scenografia, permanente ed effimero negli interni e nella città. Il suo interesse principale è come la forma sia in grado di trasferirsi attraverso altre discipline – in particolare quelle effimere – all'interno dell'architettura e i prodotti ibridi che ne derivano. I risultati della sua ricerca, della didattica e del lavoro professionale sono stati pubblicati in saggi e monografie.
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