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I CARMINA BURANA INCANTANO TAORMINA

A Taormina un concerto-evento dell’alto valore artistico e simbolico a firma del Teatro Massimo Bellini

di Vincenzo Vitale

Quella che segue non è da vedere in alcun modo come una recensione, nel senso abituale del termine, che vale “ri-esame”, quell’esame cioè che trova luogo in seguito all’esame originario, coevo all’ascolto o alla visione diretta della rappresentazione ( teatrale, musicale ecc.).

Quella qui proposta è invece da intendere come una sorta di necessaria meditazione su un “evento”, al quale a noi spetta dare “forma”, secondo la lezione del celebre e raffinatissimo classicista Carlo Diano: come dire che l’”evento” segna l’epifania del Senso, mentre la “forma” risulta dalla interpretazione che si riesca a darne.

L’”evento” – ciò che per i presenti è accaduto irripetibilmente – è stata l’esecuzione dei Carmina Burana di Carl Orff, presso il teatro greco di Taormina, la sera del 12 agosto scorso.

E dico “evento” perché si è trattato non di una delle tante esecuzioni che prolificano nei programmi musicali dei teatri italiani e stranieri, ma – seguendo le tracce del paradigma di Diano – di un accadimento specifico che interpella i presenti a interpretare il senso di cui esso è dotato, e non solo per i melomani.

Ecco dunque che siamo chiamati appunto a dare “forma” a questo evento, a concettualizzarlo, a rispondere a quell’appello, allo scopo di coglierne il senso profondo.

Della profondità ineludibile di un tale evento siamo debitori a Fabrizio Carminati e a Giovanni Cultrera, rispettivamente Direttore artistico e Sovrintendente del Teatro Massimo Bellini di Catania, i quali, mettendo a frutto ciascuno la propria personale sensibilità musicale, amplificata e portata a pienezza da quella dell’altro, son riusciti in una autentica impresa, considerato anche che il tempo che viviamo, post-pandemia, non è dei più semplici, soprattutto per lo spazio che l’arte deve faticosamente riconquistare.

L’impresa di cui parlo è certamente di carattere organizzativo, aspetto che non va dimenticato, ma è soprattutto di taglio strettamente artistico.
Carminati e Cultrera – godendo del privilegio (ignoto a tutti coloro che, essendo di nomina strettamente politica, avevano per decenni occupato il loro posto fino ad oggi), di colloquiare con la Musa – hanno saputo infatti dar vita ad una rappresentazione memorabile, appunto un autentico evento.

É facile intendere il perché. Basti considerare come i Carmina Burana occupino, nel panorama musicale, un posto di assoluta singolarità, sottraendosi ad ogni tentativo definitorio.
Essi, infatti, non sono un concerto, non rientrano nella forma della sinfonia o della sonata, sfuggendo ad ogni schematismo di carattere formale.
Non a caso dentro la partitura, si susseguono e si coordinano in modo irripetibile elementi sinfonici, lirici, epici, perfino liturgici e carnascialeschi anche sfocianti nell’invettiva, ma tutti composti in una unità che va colta ed interpretata attraverso i segmenti offerti da ciascuno.

Ed è proprio questo scopo, di elevata qualità artistica, che l’orchestrazione diretta da un ispiratissimo Dario Lucantoni ha saputo raggiungere, nell’ interpretare i singoli momenti, ritrovando di volta in volta un delicato ma necessario equilibrio fra espressione dell’episodio musicale e lettura del senso complessivo dell’opera, che, come è noto, è palindroma poiché la chiusa ricalca l’incipit.

Insomma, un vero esercizio d’alta scuola direzionale, capace di mostrare come se ogni direttore d’orchestra non possa che assumere vesti dittatoriali, quando poi si tratti di saggiare la qualità della resa musicale – superando la banalità della tensione fra fedeltà allo spartito e libertà dell’interprete, perché, come ha scritto Luigi Pareyson, ciò che occorre ricercare – dall’interprete – è la “fedeltà a se stessi”, in cui le due dimensioni appena citate si sintetizzano – allora, le differenze si notano.  E sono ovviamente tutte a favore di Lucantoni.

Ma tale scopo sarebbe rimasto nel limbo degli irraggiungibili, se non supportato dal Coro e dai cantanti.
Il Coro, delicato e potente, ha confermato la bontà della tradizione del Massimo Bellini, sotto la direzione di Daniela Giambra, maestro Luigi Petrozziello.

Eccellenti le voci di Franco Vassallo, calibratissimo baritono e perciò voce dominante nei Carmina; di Manuela Cuccuccio, soprano, quanto mai espressiva, soprattutto nei passaggi più intensamente lirici; di Enea Scala, tenore, di pari resa canora.
Inappuntabili le percussioni, di particolare importanza nel discorso dei Carmina; effervescenti gli ottoni; trascinanti gli archi, anche nel semplice pizzicato.

Resta da aggiungere una notazione fondamentale per intendere meglio la caratteristica di questo evento.

Orff non ha fatto in realtà, come è noto, che musicare un corpus di testi poetici vergati in latino, a volte maccheronico, in tedesco e in francese e risalenti circa al secolo undicesimo e dodicesimo, tramandati in un manoscritto contenuto in un codice miniato del tredicesimo secolo, detto Codex Buranus, in quanto proveniente dal convento benedettino detto Bura Sancti Benedicti, fondato nel 740 in Baviera.
Ebbene, qui risiede lo specifico dei Carmina. Occorre infatti considerare come se, da un lato, la musica non è un linguaggio assimilabile a quello verbale, in quanto, a differenza delle parole, le note del pentagramma non rimandano ad alcun oggetto del mondo e se tuttavia essa – come ha notato Emanuele Ferrari – assume un registro stilistico di carattere linguistico; dall’altro, proprio per questo, essa parla sì, ma – rileva Vittorio Mathieu – non dice nulla oltre se stessa. Dice, aggiunge Vladimir Jankélévitch, l’ineffabile, il puro indicibile.

Ecco dunque l’ulteriore difficoltà nell’esecuzione dei Carmina: il pentagramma deve scorrere accompagnando un testo preconfezionato – prima ed indipendentemente dalla musica – nel tentativo di farne emergere il senso (non così nel melodramma, ove testo e musica si co-appartengono fin dal primo momento).

Insomma, qui la musica è chiamata ad un compito apparentemente assurdo e davvero arduo: fare da levatrice al testo, per consentirne il pieno dispiegamento, propiziando l’apparire della sua piena verità.
Essa dunque, come mai accade altrove, deve sbilanciarsi pericolosamente nel verso dei significati delle parole – che sono non solo antiche, ma anche di diversissima tipologia espressiva – rischiando quasi di dissolversi nel testo, con l’effetto di smarrire la propria identità.

Da qui un compito ulteriore per l’esecuzione: mantenersi, pur nei necessari chiaro-scuri interpretativi, in equilibrio fra ciò che la musica deve rimanere e ciò che non può divenire.

Ebbene, a Taormina, abbiamo assistito anche a questo miracolo; il quale, a pensarci bene, non è neppure tanto piccolo.

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