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REVIEW – UNA SPLENDIDA GIORNATA… DA CLANDESTINO

Quando giornalismo e teatro si incontrano… clandestinamente.

di Erica Culiat – foto di Fabrizio Caperchi

È un monologo Una splendida giornata… da clandestino, inserito nella XIX edizione di S/paesati – eventi sul tema della migrazioni, organizzata dal Teatro Miela di Trieste.

La particolarità è che questo monologo, rielaborato da Giuseppe Nicodemo, attore e autore del Teatro di Fiume, è ispirato a un reportage che Gianpaolo Sarti, giornalista de Il Piccolo, il quotidiano del capoluogo giuliano, ha fatto quest’estate.

Sarti si è finto migrante per scrivere un’inchiesta sulla situazione dei richiedenti asilo a Trieste. Inchiesta e teatro come già da un po’ di tempo sta facendo il Center for Investigative Reporting, un’organizzazione giornalistica no-profit californiana e la Tides Theater, una compagnia teatrale della Bay Area di San Francisco con il progetto StoryWorks.

In pratica, queste due realtà producono pezzi pubblicati nei giornali o raccontati nei programmi televisivi – si tratta sempre di giornalismo investigativo -, trasformandoli in opere teatrali.

Da noi il fiuto per un testo potenzialmente teatrale l’ha avuto l’attore Francesco Godina, già apprezzato in Basabanchi Rèpete. E così a dicembre è andato in scena lo spettacolo firmato da una Sabrina Morena in ottima forma (regia veloce ed efficace) e prodotto da Bonawentura che speriamo venga ripreso. Anzi, meriterebbe un tour nazionale!

Platea affollata, plaudente, per quella che è stata una bella ed emozionante serata a teatro.

Fabrizio, il protagonista del monologo, che impersona Sarti (ma lui ha i capelli, – ha chiosato il giornalista prima dell’inizio dello spettacolo – io no), è un giornalista alle prese con le richieste del direttore che lo sveglia anche all’alba per discutere su cosa mettere in pagina. Vita che arramba tra idee da tirar fuori, pezzi da scrivere e la fidanzata che non ama le sue ciabattine da doccia.

La naturalezza spensierata di Francesco/Fabrizio e un testo che ammicca all’autoironia ci porta subito all’empatia con il protagonista, ci immedesimiamo nelle sua vita e nel viaggio che dovrà intraprendere in una Trieste ben visibile a tutti, ma che paradossalmente non vediamo. È la Trieste dei migranti, di quelli che hanno fatto anche tremila chilometri a piedi o viaggiando nascosti in auto o nei camion e che ogni giorno hanno il problema della sopravvivenza.

Trovano un rifugio nel Silos, in parte parcheggio, in parte, essendo abbandonato, “casa” di fortuna per queste persone. Tra escrementi, ratti e scarafaggi, almeno hanno un tetto sulla testa. Il miraggio di tutti loro è quello di un futuro migliore, a volte Trieste è soltanto una tappa, raggiunta dalla rotta balcanica, per poi proseguire il viaggio e riabbracciare i propri parenti in qualche altro paese dell’Unione Europea.
La notte, in questo caso l’alba, porta consiglio.

Perché non infiltrarsi tra i migranti? Perché non fingersi uno di loro? Perché non scrivere una storia standoci dentro? Così Fabrizio sfodera la sua divisa da concerto vintage, maglietta sformata, jeans logori, le ciabattine che alla fidanzata non piacciono, zainetto e via. A monte bisogna risolvere il problema della nuova identità e quello della lingua. Chi sono? Dopo un po’ di ricerche su internet, la nuova identità è quella di Anton, giovane gagauziano della Moldavia, una minoranza turca.

«E la lingua? Anche se lo mastico poco, userò l’inglese».

Francesco/Fabrizio/Anton ci tiene stretti per mano in questa incursione nella città invisibile. Avvertiamo la sua irrequietezza nell’affrontare la bocca scura del Silos, mentre attorno a lui si materializzano gli scatti dei fotografi del Piccolo, Andrea Lasorte, Francesco Bruni, Massimo Silvano, che sono stati rielaborati diventando parte della scenografia firmata da Marco Juratovec. Ma l’irrequietezza si liquefà nello stupore di essere accettato. Ragazzi sradicati da casa, che vivono in condizioni di disagio, accolgono subito Anton, «mi accolgono nella mia città!», dirà Anton a un certo punto.

Anton diventa un nuovo amico e lo portano con loro, tutto il giorno. Lo portano al centro diurno di via Udine, gestito dalla Comunità di S. Martino e dall’Ufficio Rifugiati Onlus dove si può fare la doccia e cambiarsi gli abiti; lo portano a pranzo alla mensa della Caritas e loro, i rifugiati, offrono a Fabrizio/Anton una cotoletta e una coca; lo portano a pregare. Anton scopre in questo modo però anche un’altra Trieste. Quella che tende la mano e aiuta.

Dicevamo di questa scenografia costruita sulle foto, ma tra queste si inseriscono anche spezzettate le parole Zabiullah Ahmadi – oggi vive e lavora a Trieste – sul tempo dell’attesa e sulla sua esperienza di rifugiato, dove viene intercalato quel I have a dream che anni fa pronunciò Martin Luther King. Un sogno per un futuro che accolga tutti i colori di una realtà che è già qui.

Lo spettacolo, insomma, è stato un po’ il nostro Look beyond borders, il famoso video di Amnesty Polonia, che forse è riuscito a scalfire la nostra paura dell’altro, trasportandoci dalle risacche dell’indifferenza al mare aperto della comprensione.

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