Il teatro per rappacificarsi con le pagine più buie della storia e del proprio Io.
di Marzio Serbo
Sprofondare con un respiro denso, umido a tratti affannato nella memoria ferita della propria infanzia è concedere in qualche modo al passato di dipingere l’identità del presente. Questo è il viaggio complicato e pericoloso di Vladi, “Jugoslavia, il mio paese”, andato in scena al Teatro Stabile Sloveno di Trieste dall’11 al 13 febbraio.
Il protagonista è un bambino ormai divenuto uomo che vive e studia all’università di Lubiana e che riscopre la propria infanzia per tratti foschi e costituita da segmenti temporali fra loro distanti e confusi. In quelle tessere di ricordi che compongono affastellate il suo disordine interiore, riscopre il ritratto di un padre che si mostra essere un criminale di quella guerra che ha diviso violentemente i Balcani, disgregato le famiglie, straziato sentimenti e memorie di stabili antiche convivenze.
Pola, il sole, una villa con piscina, uomini dell’intellighenzia militare di una federazione ormai destinata a crollare con la morte del proprio leader: queste sono le immagini che Vladan Borojević rivive e così, lentamente, affiora la verità: il padre non è morto come gli avevano fatto credere fin da bambino, fin da quel lontano 1992, ma si nasconde dal suo affetto, dalla paura di finire condannato in un tribunale internazionale.
Il testo adattato per il teatro nasce come un romanzo di Goran Vojnović nel 2012. La messa in scena diretta da Marko Misirača è una coproduzione dei teatri di Capodistria in Slovenia, di Prijedor in Bosnia e della Fondazione tedesca Friedrich Ebert. Si tratta di un’operazione culturale molto apprezzata e riuscita che porta intelligentemente lo spettatore a perdere di continuo il punto di equilibrio del proprio giudizio. Applaudito non solo dal pubblico, ma anche dalla critica, vincitore del premio teatrale transfrontaliero «Tantadruj» come miglior produzione, lo spettacolo espone da subito con crudezza punti divergenti di vista: stereotipi razzisti, pregiudizi culturali, preclusioni sessiste; divisioni che si mostrano essere altrettante sbarre capaci di affettare le relazioni in scarni frammenti di vita che Vladan a stento riesce a ricomporre.
È complicato il destino del giovane protagonista, interpretato dall’ottimo Blaž Popovski, il cui animo è scolpito dall’abbandono del padre che lo ha fatto fuggire allo scoppio degli scontri armati dai parenti a Novi Sad; da lì è poi trascinato al sicuro da sua madre, Duša, in Slovenia – una convincente Mojca Partljič – incapace di proteggere l’affetto del figlio dalle proprie paure.
L’antagonista è il padre, Nedeljko, un ruolo giocato magistralmente tra l’energico e l’amaro da Boris Šavija. A meglio soffermarsi sul personaggio, viene alla mente il dubbio della Arendt sulla banalità del male, ma non si sconta nulla alla responsabilità dell’uomo, a nulla serve l’alibi della cieca obbedienza militare. Si scoprono tutte le carte su di un palcoscenico lasciato occupato con semplicità da pochi ingenui arredi, uno spazio grande, vuoto di speranza, dove l’emozione del suicidio che chiude la vita di un conclamato criminale di guerra, non è ragione sufficiente per una catarsi generale, ma solo ulteriore motivo di riflessione.
Ferite profonde, non ancora rimarginate, che la cultura e il teatro riescono a mostrare con delicata ostentazione, pur senza riaprirne i labbri dolorosi, così che dal pensiero critico possa iniziare la lenta strada della rappacificazione.