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“FESTA DELLA REPUBBLICA”: RECENSIONE E INTERVISTA ALL’AUTORE E REGISTA NICOLETTI

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di Ilaria Faraoni

Presentato da Planet Arts (collettivo teatrale), ha debuttato al Teatro Trastevere di Roma (dove rimarrà fino al 4 aprile), Festa della Repubblica, un 2nuovo lavoro diretto da Giancarlo Nicoletti che, oltre al ruolo di regista, ricopre anche quelli di autore del testo e di interprete. Dopo la regia e l’adattamento italiano del musical Chess (la recensione sulla Rivista Musical! QUI) questa volta Nicoletti si confronta con la prosa e, per l’esattezza, con un teatro sperimentale e di ricerca, come si legge nel comunicato stampa (cliccare QUI).

La tematica dello spettacolo, la corruzione a tutti i livelli, inserita nel contesto di una  incomunicabilità senza rimedio, è interessante e ben sviluppata, con un intreccio costruito in modo efficace, arricchito da diversi colpi di scena.

Quello che può lasciare perplessi, se si è letto il comunicato stampa che parla di sperimentazione, di “cortocircuito teatrale” (è il sottotitolo) unconventional e di svecchiamento delle dinamiche teatrali classiche, è che lo spettacolo non corrisponda all’idea che suscitano immediatamente tali concetti. Ci si aspetterebbe qualcosa di non visto, scelte registiche o stilistiche spiazzanti, “azzardo”; tutto sembra invece scorrere sui binari di dinamiche tradizionali, proprio quelle che si vorrebbero cambiare.16

Alcune soluzioni, a livello di regia, come quelle che ottengono l’effetto di un montaggio cinematografico alternato, oppure l’uso di un uomo per interpretare un personaggio femminile (una madre popolana un po’ bigotta e allo stesso tempo superficiale cui importa solo che la figlia sfondi nel mondo dello spettacolo), o ancora l’irruzione di momenti leggermente surreali in altri più “normali” o l’invasione dello spazio degli spettatori, solo per fare alcuni esempi, non sembrano bastare per definire Festa della Repubblica teatro di sperimentazione anticonvenzionale proprio perché tutti questi e altri ancora, sono elementi che fanno ormai parte della quasi totalità degli spettacoli d’oggi, anche quelli più convenzionali.

4Stupisce poi, nella ricerca della non convenzionalità, l’uso di stereotipi: ogni personaggio incarna un tipo ben preciso e agisce di conseguenza.

Rispondono invece alle aspettative i diversi minuti, prima dell’inizio canonico, in cui Nicoletti entra in scena mentre il pubblico si accomoda in sala e, come se niente fosse, fuma, si siede al tavolo di lavoro, consulta il pc, esce, poi rientra, fuma… Spiazzante e interessante anche la reazione del pubblico che, accogliendo tutto ciò con naturalezza, seguita a chiacchierare in attesa dell’“inizio”, quell’inizio riconoscibile per convenzione, anche se in realtà lo spettacolo è già iniziato. Questo sì, sembra essere un buono spunto di riflessione sulle dinamiche teatrali, relazionate anche alla risposta degli spettatori.

Si parla poi di “trash d’autore” e di accostamento di diversi linguaggi, tra i quali il volgare medievale. 5Se per volgare si intendeva la lingua del popolo, del volgo, lontana dalla lingua alta (il latino) e se è anche vero che alcuni autori (come il Boccaccio prima, o l’Aretino molto dopo) non ci andavano leggeri, qui i sonetti ripresi proprio dall’Aretino e attribuiti ad un antico sommo poeta siciliano fittizio che si vorrebbe anteporre e contrapporre al toscano Alighieri (seppur nella veridicità della esistenza di una scuola siciliana, alla corte di Federico II, che si esprimeva in volgare aulico) danno l’idea di lasciarsi andare ad un compiacimento troppo insistito, nel contesto dello spettacolo, che non è legato a necessità concrete di costruzione drammaturgica, ma che rallenta al contrario il ritmo.

Efficace il cast: Nicoletti si affida ancora una volta a Stefania Fratepietro come sua partner. Artista d’altissima classe, si sa,la Fratepietro costruisce con precisione il personaggio, questa volta negativo, della giornalista senza scrupoli dedita solo all’audience e al successo personale, anche messa davanti ad un morto “fumante”.

3Sarà l’unica, comunque, ad avere anche una sorta di piccolo riscatto finale, a differenza degli altri personaggi.

Menzione speciale anche per le altre tre donne del cast che dimostrano uno studio dei caratteri ben approfondito anche attraverso il linguaggio del corpo. Parliamo di Valentina Perrella (l’aspirante show girl) Cristina Todaro (la moglie dell’imprenditore scomparso) e Silvia Carta (la violenta siciliana che chiede il pizzo).

Come si diceva, apprezzati per la credibilità anche tutti gli altri interpreti, capitanati da Nicoletti (il giornalista impegnato): Luca Di Capua (lo studente), Matteo Montalto (il cantante), Pierpaolo Saraceno (il compare siciliano della Carta), Alessandro Giova (il ricercatore-complottista), Andrea Venditti (l’onorevole), Alessandro Solombrino (la madre dell’aspirante show girl).

Assistente alla regia Valentina Migliore, scene Giovanna Sottile, aiuto regia Sofia Grottoli e Matteo Volpotti

Abbiamo voluto risolvere le perplessità sorte dalla visione di Festa della Repubblica intervistando il regista ed autore Giancarlo Nicoletti, che ringraziamo.

Giancarlo, quando è nato il tuo interesse per il teatro e come sei arrivato alla scrittura ed alla regia?

GiancarloNicolettiSarà retorico, ma la sindrome di Stendhal l’ho avuta da piccolo. Sono cresciuto in provincia, in un ambiente familiare culturalmente molto stimolante, ma la prima volta a teatro, a vedere una commedia dialettale, mi ci portò un compagno di scuola. Credo che fu lì che realizzai qual era il mio posto nel mondo. Avevo 6-7 anni, non sapevo che vicino casa mia, nel mio paese, ci fosse un teatro con un palcoscenico, un sipario e della gente che recitava. A casa mia il teatro e l’opera si vedevano tanto, ma se non volevi accontentarti della televisione dovevi spostarti, e anche se coi miei lo facevamo spesso, l’idea che si potesse fare teatro, arte, a pochi passi da casa, che ci fosse qualcuno vicino a te che lo facesse, fu come una scossa. Quel giorno si apriva un sipario e cambiava qualcosa: credo che quella tenda sia rimasta per me sempre aperta. Poi è arrivata la regia, per ultima la scrittura: questo è il mio secondo testo.

Qual è stata la genesi di Festa della Repubblica?

Avevo scritto un corto teatrale di 20 minuti per il Premio Millelire; alcune tematiche (il linguaggio, l’uso della parola, il surrealismo, il problema del successo) che lì erano affrontate per sommi capi pensavo andassero approfondite, ma la cosa restava solo nelle idee. Poi mi avevano chiesto una regia di un altro testo per queste date al Teatro Trastevere, ma il lavoro non mi dava molti stimoli. Ho proposto di sostituirlo con un mio testo inedito, mi hanno dato il via libera e così, in tempo record, il corto teatrale è diventato cortocircuito teatrale. L’ho scritto in tre giorni e montato in un mese.

Nella presentazione dello spettacolo si legge: “Cortocircuito teatrale unconventional: teatro di ricerca, commedia, dramma, sperimentazione…”. E ancora: “Un tentativo di svecchiare le dinamiche teatrali classiche”. Qual è esattamente la tua idea di sperimentazione e ricerca, quali sono le dinamiche che vanno svecchiate e come, concretamente, hai messo in atto tutto ciò nello spettacolo?

Le dinamiche svecchiate sono quelle del fare teatro in sé, e sono facilmente rilevabili sul piano registico e drammaturgico: utilizzo quadridimensionale dello spazio scenico, cambio di prospettiva al pubblico della visuale sulle scene, eliminazione dell’articolazione pulita e del “doppiagese” e sporcatura voluta delle parole, attori liberi di andare spalle al pubblico, commistione dei linguaggi dei caratteri, eliminazione delle quinte e utilizzo del palco senza sipario e senza “neri”, utilizzo di tutto lo spazio del teatro (non solo del palcoscenico), scene contemporanee e che si accavallano una sull’altra, nessun tempo comico all’italiana, punteggiatura non recitata. E, soprattutto, la ricerca dell’equilibrio fra surrealismo e naturalismo. Questo perché il teatro non pone limiti, può coesistere tutto, è tutta questione di come fare le cose, piuttosto che cosa fare; è questa la ricerca e la sperimentazione che vorrei percorrere, quella sui meccanismi, ed è chiaramente più sottile della ricerca denunciata o sbandierata. In Italia c’è una certa evidente scollatura fra il teatro cosiddetto colto, o di ricerca, o sperimentazione, e il teatro per il grande pubblico. Non mi rivedo in nessuno dei due; il primo è a volte autoreferenziale, paradossalmente conservatore, spesso incomprensibile ai più e lontano dal concetto di “spettacolo” vero e proprio, colpa di una certa patina sessantottina, che oggi definiremmo radical chic. Il secondo è per palati poco esigenti, una specie di fast food dell’arte, senza azzardi, novità, scommesse, un po’ ripiegato sulle stesse cose e molto ripetitivo. Ci sono diversi lavori che stanno in mezzo, mi piacerebbe collocarmi lì, fra il colto e il popular. E’ chiaro che sarà un percorso lungo e che non ho la pretesa di avere la cosidetta “scienza in tasca”.

Sempre, nel comunicato stampa, si parla di “trash d’autore”. Vuoi approfondire il concetto e, soprattutto, perché un autore per comunicare sente il bisogno del trash o della volgarità? Cosa aggiunge alla comunicazione? Nel caso specifico, togliendo questi elementi, cosa del senso dello spettacolo e del messaggio che volevi comunicare si sarebbe perso?

GiancarloNicoletti (1)Credo che il trash sia cosa diversa dalla volgarità, e a maggior ragione il trash cosiddetto d’autore. Un esempio: i sonetti che i personaggi dello spettacolo attribuiscono, in maniera assolutamente fantasiosa, a uno sconosciuto poeta, e che vengono letti a più riprese, dove la parola “cazzo” è reiterata di continuo, non sono una mia invenzione; sono i “Sonetti lussuriosi” di Pietro Aretino, composti nel ‘500, ispirati dalle incisioni erotiche  realizzate dal pittore Marcantonio Raimondi. E un buon osservatore coglierà una miriade di richiami che attingono alle fonti culturali più varie, l’opera lirica, la letteratura, la storia contemporanea italiana, il sistema linguistico: il tutto in commistione con la quotidianità stilistica dell’italiano corrente e dello slang. La volgarità è un concetto soggettivo, io trovo che questo spettacolo sia volgarissimo, ma nello stesso modo in cui le prime forme di italiano derivato dal latino erano chiamate “volgari”: ed è questo il concetto, volgarità come dissacrazione, movimento, contaminazione. I riferimenti alla sfera della sessualità, poi, ribadiscono semplicemente il concetto di centralità di questa nei rapporti fra le persone, nei pensieri, nel gioco del potere, nel lavoro, nella carriera e nella vita di ogni giorno. Ma non l’ho inventata io: partendo dalle feste falloforiche greche e arrivando al bunga bunga di Palazzo Chigi, passando per Freud, la letteratura d’argomento e i riferimenti si sprecano.

Quando il personaggio di Vittorio sostiene che terrà la verità per sé, perché tutti gli altri non la meritano, è Giancarlo che parla attraverso di lui? Nessuno è escluso da questo giudizio? Neanche tu stesso, quindi? Ed in effetti nello spettacolo nessun personaggio si salva dalla negatività, non solo i delinquenti dichiarati, ma anche gli altri protagonisti e ciò che alcuni di essi rappresentano: la stampa, la politica, il mondo dello spettacolo, l’ambiente universitario. In un mondo dove regna l’incomunicabilità, tutto è corrotto… Il mondo è davvero, secondo te, così senza speranza?

Vittorio dice: “… perché la verità non serve a niente, e non ve la meritate nemmeno, bastardi.” Credo sia proprio così, ma non lo dico con cinismo, piuttosto con senso del reale; bisognerebbe liberarsi dalla patina del perbenismo e dei buoni sentimenti: che, in fondo, sono cosa diversa da un’etica corretta e improntata al comportarsi bene. È la realizzazione di una verità ineludibile, nulla di più. I personaggi non sono “negativi”, sarebbe riduttivo considerarli così, i personaggi non comunicano la propria individualità e i propri obiettivi in maniera chiara, né al mondo, né a sé stessi, ed è per questo che tirano fuori i propri istinti più bassi e infimi. E per quanto mi riguarda, se pensassi che non ci fosse speranza, non avrei messo in scena l’assenza di speranza: è lo stesso meccanismo della catarsi nella tragedia greca, rappresentare l’orrore per educare al disvalore, per cercare la purificazione. Ma senza moralismi: il pubblico deciderà cosa pensare e quale messaggio ricavare dalla denuncia in maniera assolutamente autonoma.

I personaggi, più che individui particolari, sembrano rappresentare degli stereotipi: ognuno fa e dice esattamente quello che ci si aspetta dal tipo che rappresenta. Perché giocare sul “convenzionale”, se si vuole puntare sull’unconventional?

Nulla di ciò che è raccontato in scena è convenzionale. La tridimensionalità dei personaggi è tanto più forte quanto più si avvicinano all’assunto che nessun essere umano, soprattutto in condizioni estreme, sa distaccarsi dalla propria vera natura, inutile illudersi del contrario. Non bisogna, però, fare confusione fra “tipo” e “stereotipo”, facendosi fuorviare dal fatto che ogni personaggio persegue un obiettivo chiaro e sistemico fin dall’inizio. Sarebbe stato convenzionale risolvere tutto con un “coup de theatre”, nel quale un personaggio improvvisamente fa qualcosa di completamente lontano da sé stesso, qualcosa di visto e rivisto nella drammaturgia di ogni tempo. L’unconventional a cui mi riferisco è lo staccarsi dalla convenzione, da quello che ci aspetta, dal concetto di “accordo” fra il pubblico e chi sta dall’altra parte. Qui c’è rispetto del pubblico, ma non ci sono accordi, non c’è quello che ci si aspetta da una serata di teatro politically correct. Per mettersi la pelliccia e godere di una buona dizione, di una declamazione fronte pubblico, di lieti fine e di qualcosa che non disturbi, di tempo e spazio ce n’è sempre troppo.

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