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IL KILLER DI PAROLE

Se è vero che fare avanguardia significa procedere in posizione avanzata e precorrere i tempi, bisogna allora ammettere che nell’ambito sempre più ristretto del teatro d’opera odierno gli avanguardisti sono pressoché latitanti. Esistono, ben che vada, autori che hanno la capacità di rielaborare con originalità l’eredità del passato e, parallelamente, di captare la direzione in cui spira il vento della contemporaneità a livello di concezioni, progetti, soggetti drammaturgici.
Claudio Ambrosini, nella sua nuova opera andata in scena in prima assoluta alla Fenice, Il killer di parole, propone una storia singolare che rimanda a tematiche di grande attualità: da un lato, la crescente difficoltà di tutelare i valori espressi dalle culture autoctone; dall’altro, l’avanzare di un mondo globalizzato e di una cultura sempre più appiattita in un linguaggio standardizzato.
Si tratta di un «ludodramma»  in due atti che sviluppa il soggetto sul doppio binario della tragedia e dell’ironia, partendo da uno spunto offerto al compositore da un letterato di fama: Daniel Pennac.
Ne è protagonista un personaggio curioso, una particolare figura dell’editoria eliminando i termini ormai in disuso per far posto ai neologismi: l’espuntore incaricato di aggiornare il vocabolario. È lui il killer di parole. Che del vero killer, tuttavia, non ha la determinazione, né il sangue freddo. È piuttosto un eroe perdente, malinconico, troppo sensibile e sognatore per portare a buon fine il suo compito. Per lui le parole antiche, siano esse colte o plebee, emanano un fascino particolare, sono amabili, indifese. Non ha il coraggio di ucciderle. Non stupisce che la moglie, impiegata nella stessa azienda, donna in carriera molto pragmatica e interessata al potere dei numeri, lo consideri un inetto e lo disprezzi…

[continua a leggere l’articolo sul numero 255 (febbraio 2011) di L’Opera]

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